Il viaggio di un padre e un figlio

Per chi è genitore la sofferenza di un figlio è inaccettabile. Si è pronti a sostituirsi a lui pur di non assistere al suo dolore. Ma cosa succede quando quel figlio è chiuso in un corpo e non c’è possibilità di raggiungerlo? Quando non si è capaci nemmeno di sapere se nel vuoto in cui pare vivere arrivi qualcosa, qualunque cosa?

La storia di Pietro e Jacopo parte da una diagnosi che è una condanna un lapidario “autismo a basso funzionamento”, una forma rara e grave che il padre usa anche per evitare qualunque commento. Cosa si può controbattere di fronte ad una tale sentenza?

Il figlio è poco più alto del padre, che basso non è affatto.
È slanciato, e bello, Jacopo è bello, di una bellezza che può ingannare per qualche istante, poi, anche mentre cammina, non si può non notare il leggero dondolamento, l’andatura da sonnambulo aggrappato al braccio del padre, e la mano sinistra, le dita della mano sinistra, che non smettono mai di passare e ripassare sulla coscia. […]
«Ma… che ha?»

«È autistico, a basso funzionamento, bassissimo.»

Oliviero è un meccanico alla prese con parole nuove e complesse.

«L’autismo l’ho sentito, anche qui in paese c’era un ragazzo, ora vive in un istituto perché i genitori sono morti, ma il funzionamento… basso… non l’avevo mai sentito.» […]
«Significa che non parla, non sa fare nulla, si piscia e caca addosso.»

In poche pagine suddivise in atti come una tragedia Mencarelli racconta un intermezzo, quello di un padre costretto a fermarsi in un paese sperduto del Molise per qualche giorno, a causa di un improvviso e inaspettato guasto alla macchina. Un padre che è accompagnato da un figlio gravemente disabile. Un ragazzo all’apparenza bello e normale, ma che in realtà è un guscio vuoto, un corpo che espleta tutte le funzioni fisiologiche e niente più: un neonato di 18 anni.

Pietro ha amato quel figlio, come ha amato e ancora ama sua madre Bianca, ma quell’amore è diventato altre cose, si è trasformato in odio e poi in rabbia. Una rabbia che è tanto potente, tante accecante da essere come una sostanza stupefacente: Pietro ormai è imbottito di dolore e drogato di rabbia. E’ l’unica cosa che gli è rimasta, l’unica risposta alla commiserazione, all’ingiustizia. Ha creato un formulario di frasi dietro cui si nasconde, utilizzando il sarcasmo per coprire il vuoto che sente dentro, la sua incapacità ad accettare quel figlio.

«Il miracolo non è mai arrivato. Come unica risposta, da est è spuntato l’odio. Ha ricoperto tutto, i sani e i malati, la vita intera. Per anni è stato così. Poi pure l’odio è tramontato. Resta la rabbia, quando esplode.»

Pietro è un padre esausto, fisicamente ma anche e soprattutto psicologicamente ed emotivamente: un uomo consumato dalla rabbia verso il suo stesso figlio, verso Dio, verso la società che guarda lui e il figlio con pietà e commiserazione, verso un sistema che non gli ha garantito nulla, perché non ha i mezzi finanziari per sostenere e supportare i costi di simili patologie. Pietro è pieno di debiti per aver cercato di offrire a quel figlio tutti gli strumenti per poter, se non guarire almeno avere un’esistenza dignitosa. E’ un uomo che ha perso la fiducia negli altri, la voglia di credere che ci sia ancora qualcosa di bello, l’unico momento di pace è quando sotto la doccia si lascia andare a sogni ad occhi aperti, si immerge in un mondo immaginifico e irreale.

«Non sai quanto ho pregato. Ovunque. Ho passato anni a offrire la mia vita, la mia salute, in cambio di quella di mio figlio. Vederlo ridere. Correre. Parlare. Ho pregato da finire le preghiere. Non mi ha mia riposto nessuno»

La sua esistenza è scandita, condizionata dall’autismo del figlio. Jacopo soffre della sindrome disintegrativa della fanciullezza, un disturbo in cui il bambino fino ai tre anni cresce in modo lineare, poi si blocca e regredisce. Terribile per un genitore aver assistito ai progressi del figlio, averlo sentito chiamare “papà”, averlo visto ridere e poi ritrovarsi con un neonato che cresce fisicamente, ma che tutto quello che apprende oggi, ha dimenticato domani.

«Non è una battaglia.»

Gli occhi di Pietro sono tornati ad essere precipizi di cui non si vede il fondo.

«O una guerra. Quelle si vincono o perdono. Altre malattie sono battaglie. Questa è più una specie di maledizione. C’è chi vince alla lotteria e a chi tocca un figlio autistico a basso funzionamento, anzi a zero funzionamento. Nessuna guerra. Solo giorni uguali ad altri giorni.»

Daniele Mencarelli affronta un argomento spinoso: la solitudine e la quasi totale mancanza di aiuti per le famiglie che hanno figli con disabilità gravi. L’assenza di assistenza continuata e qualificata, gli aiuti anche economici e le prospettive di vita nel caso in cui ai genitori succeda qualcosa. E lo fa senza retorica, mettendo l’accento sull’ipocrisia di chi definisce questi genitori “eroi” senza rendersi conto che sono solo esseri umani, consapevoli di non essere eterni, con un lavoro ma incapaci di sostenere le ingenti spese che avere un figlio disabile comporta.

In questa discesa agli inferi di un padre che vive quotidianamente l’inferno in terra e sa che non esiste possibilità di salvezza riesce però a intercettare qualcosa: la solidarietà vera, l’affetto, la compassione, termine ormai inteso sempre negativamente, ma che in realtà, vuol dire soffrire con, essere partecipe del dolore dell’altro. L’incontro con Oliviero, Agata e Gaia rappresenta, a suo modo, l’ultima possibilità di redenzione, perché gli altri possono essere ancore, persone che sanno ascoltare, che sanno tendere una mano, senza giudicare, senza salire in cattedra, senza assurgere al ruolo di giudici. Perché nel suo intermezzo molisano, in quella regione che per alcuni nemmeno esiste, Pietro troverà una piccola comunità disposta ad ascoltare, a vedere il suo dolore, a capire la sua rabbia, e che gli permetterà di tornare ad essere un uomo e non solo il padre di Jacopo.

Ho letto Fame d’aria prima del Salone del Libro di Torino proprio perché volevo aver modo di assaporare maggiormente la presentazione di Daniele Mencarelli. Sentir parlare l’autore del libro che ha scritto rappresenta sempre un valore aggiunto e anche stavolta è stato così. Sentire Mencarelli parlare di Fame d’aria ha reso ancora più completa e coinvolgente l’esperienza di lettura di un testo che non può lasciare indifferente, sia per la scrittura magistrale perché l’autore romano nasce poeta e si sente, sa usare le parole ed è un autore di rara sensibilità nell’affrontare temi tutt’altro che semplici.

Daniele Mencarelli si conferma uno degli autori che meglio sa parlare di dolore senza mai scendere nel patetico, senza ricorrere a trucchi. Il dolore puro e semplice, l’incandescenza che brucia fino all’osso. Una scrittura scarna, essenziale a tratti dura. Una storia che arriva dritta al cuore e lo spezza.

Fame d’aria di Daniele Mencarelli Mondadori (2023) – pag. 171

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