Ghassan Kanafani è uno dei più grandi scrittori arabi del secolo scorso. Il primo a parlare di “Adab al-Muqawamah”, cioè “letteratura della resistenza”, nei suoi scritti portò avanti la causa del popolo palestinese, reclamando il diritto al ritorno per i profughi. Una vita, la sua, che ricalca le vicissitudini dell’intera comunità palestinese, costretto a lasciare la sua terra, vissuto in Libano, in Siria, poi in Kuwait e morto a soli trentasei anni, in un drammatico attentato attribuito ai servizi segreti israeliani, tra le sue pagine troviamo l’odissea dei suoi connazionali: lo sradicamento, la difficoltà di integrazione, il disinteresse delle altre nazioni, comprese quelle dei “paesi arabi fratelli”.
In questi due racconti lunghi o romanzo brevi è capace in poche pagine di narrare il dolore e lo spaesamento del suo popolo.
Nel primo Ritorno a Haifa, pubblicato in lingua araba nel 1969, riesce, tramite flashback a tratteggiare due drammi contrapposti: due diaspore, due tragedie.
«L’uomo non è forse il risultato di quello che gli si inietta dentro ora dopo ora, giorno dopo giorno, anno dopo anno?»
Said e sua moglie Safiya, nel 1948 sono stati costretti a lasciare la loro casa ad Haifa, impossibilitati a tornare indietro per prendere il bene più prezioso, si ritrovano, a distanza di vent’anni dalla Nakba e dalla nascita dello stato d’Israele, davanti alla loro vecchia casa abitata ora da una famiglia di ebrei polacchi scampati ad Auschwitz. Tramite un continuo gioco di rimandi tra passato e presente affiorano tutta la sofferenza e il dolore di una duplice tragedia, che l’autore riesce a rappresentare in tutta la sua complessità di sentimenti e passioni umane, incarnata magistralmente da Miriam che nel ripensare ai suoi primi giorni in Israele mostra umanità e solidarietà. La donna è consapevole che la sua tranquillità si fonda sull’infelicità altrui. Un atteggiamento di cui lei non vuole essere complice, che la fa stare male, perché la trova profondamente ingiusta.
«[…] Io so che un giorno capirai queste cose, e ti renderai conto il delitto più grave che possa commettere un uomo, chiunque sia, è quello di credere anche per un solo istante che la debolezza e gli errori degli altri gli diano il diritto di esistere a spese loro e di giustificare i propri errori e i propri crimini…»
Kanafani con una scrittura disincantata e coinvolgente, ricca di pathos concede spazio (e forse comprensione) anche all’altro, l’occupante, il nemico, in un dialogo che seppur non risolutivo mette in luce le contraddizioni e gli errori di entrambi.
Il secondo racconto mette al centro della scena una donna umile, una madre, Umm Saad che nella sua semplicità, ma anche nel suo orgoglio e risolutezza mi ha ricordato l’Agnese di Renata Viganò.
Veniva a lavorare a casa nostra ogni martedì: guardava tutte le cose come se fossero, in fondo, anche sue. Mi guardava come se fossi figlio. Mi raccontava la storia della sua infelicità, della sua gioia e delle sue fatiche, e non si lamentava mai. Sulla quarantina, credo, forte come un macigno. Una donna paziente, andava avanti e indietro ogni giorno della settimana, lavorando come se avesse dieci vite, per mettere insieme un boccone di pane onesto per sé e per i suoi figli.
Umm Saad è il racconto di una resistenza, che non è solo quella di chi combatte per veder riconosciuto il proprio diritto di esistere, che imbraccia le armi per poter uscire da una vita dietro a un filo spinato, controllato in tutto ciò che fa, senza nessuna possibilità di un futuro diverso e migliore, ma anche quella di chi rimane in attesa, di chi vede i propri figli allontanarsi per andare a combattere e non sa se li rivedrà.
«La povertà, ragazzo mio, la povertà… La povertà trasforma l’angelo in diavolo e il diavolo in angelo. Che altro poteva fare Abu Saad se non arrabbiarsi e prendersela con la gente perfino con la sua ombra? Abu Saad era schiacciato dalla miseria, dalla rabbia, dalla tessera dell’assistenza, dal tetto di lamiera, dall’oppressione dello Stato…»
Queste due struggenti storie sono le storie di un intero popolo chiamato a pagare colpe non sue, esiliato malamente dalla sua terra, costretto a lasciare tutto e brutalmente massacrato quando ha tentato di opporre resistenza. Sono il simbolo di un’irrevocabile perdita d’identità e di un’incancellabile umiliazione. E pongono ancora oggi a distanza di tanti anni da quando sono state scritte le stesse domande: può l’orrore della Shoah, per quanto enorme sia stata, giustificare la violenza, gli abusi e i soprusi che da decenni continuano a perpetrarsi nei confronti dei palestinesi? Può un popolo arrogarsi il diritto alla sopravvivenza a dispetto e a discapito di un altro popolo? E soprattutto può la comunità internazionale continuare a far finta di nulla? Avallare e di conseguenza accettare la barbarie in totale disprezzo della vita, della giustizia e dell’umanità?
Ritorno a Haifa [‘A’ id ilà Haifa 1969]– Umm Saad [Umm Sa’d 1969]- Due storie palestinesi di Ghassan Kanafani- Edizioni Lavoro (2023) – traduzione di Isabella Camera d’Afflitto – pag. 109