Uno strano strumento

Ancora una volta, tramite la lettura di un romanzo mi trovo a scoprire una storia vera e un personaggio realmente vissuto, di cui non avevo mai sentito nominare: Lev Sergeevic Termen o meglio il dottor Leon Theremin, un fisico sovietico celebre per aver inventato, nel 1919, il “theremin”, uno strano strumento musicale, senza tasti né tastiera, caratterizzato da una scatola (detta cabinet) con due antenne: una che controlla l’altezza del suono, l’altra la sua intensità. Uno strumento con cui il musicista non ha alcun contatto fisico, che produce il suono solo attraverso la distanza delle mani dalle due antenne. Avvicinando una mano a un’antenna si ottengono note più alte, avvicinandone all’altra si ottengono suoni di volume più basso. Il suono prodotto è simile a quello di un violino ma il tono è più freddo e con un’intonazione più inquietante, che genera quel senso di sinistro, di misterioso, di disturbante, che ha fatto sì che fosse spesso utilizzato nelle colonne sonore di film horror e di fantascienza (La moglie di Frankenstein di James Whale, Ultimatum alla Terra di Robert Wise, Plan 9 from Outer Space di Ed Wood) o per sottolineare particolari momenti di suspense, come in Io ti salverò di Alfred Hitchcock.

A rendere popolare il theremin fu la sua allieva Clara Rockmore, che definì anche il metodo ufficiale per suonarlo (il “Metodo Rockmore” è ancora oggi il punto di riferimento per chi decide di apprendere l’uso dello strumento).

E’ curioso come questo strano strumento abbia avuto alterne vicende: dopo un successo iniziale e la sua brevettazione negli Stati Uniti nel 1928 ad opera del suo inventore, e l’iniziale entusiasmo con cui fu accolto, ritornò in auge negli anni sessanta grazie ai Beach Boys, che lo utilizzarono nella loro hit Good Vibrations, e tramite la sigla iniziale della serie animata Scooby-Doo. E’ stato poi usato da svariati artisti, spesso per dare enfasi a particolari intermezzi, uno su tutti Michael Jackson, che nel 1984 ne fece largo uso in Thriller.

Ecco come si suona un theremin:
Lo accendi. Poi aspetti.
Per diverse ragioni: aspetti per dare ai tubi il tempo di scaldarsi, come creature al loro primo respiro. Aspetti per intensificare la suspense del pubblico. E infine, per aumentare le tue aspettative. È eccitazione e terrore allo stesso tempo. Sei lì in piedi accanto a una custodia e due antenne, e di colpo lo spazio stesso viene attivato, la stanza si carica, l’atmosfera prende vita. Quel che era in potenza diventa potente. Ti immagini scintille, braci, minuscole particelle che s’illuminano in equilibrio nel vuoto dell’aria.
Sollevi le mani.
Prima la destra, verso l’antenna dell’intonazione e lo sentirai: ZIIIIOOOoo, un tubare elettrico che si assesta in un lungo inno. Allora sollevi la sinistra, verso l’antenna del volume, per smorzarlo.
Muovi di nuovo le mani e l’apparecchio canterà.

Questo affascinante strumento, in cui semplicemente il movimento delle mani plasmano l’aria e trasmettono il suono, che si suona senza toccarlo, fu ideato da Theremin fondendo due delle sue grandi passioni: la musica e la fisica. E proprio grazie a questo, fu invitato dal partito comunista a viaggiare prima in Unione Sovietica, poi in Europa ed infine addirittura negli Stati Uniti per far conoscere la grandezza delle scoperte sovietiche.

E da qui parte la storia narrata ne L’eco delle balene di Sean Micheals, una biografia romanzata. In prima persona, viene raccontata al lettore la vita di Theremin, dall’infanzia a Leningrado, ai primi studi, dall’invenzione dello strumento che gli ha cambiato la vita fino al trasferimento in America. Per Leon inizia un periodo vorticoso culminato con il suo arrivo a New York nel 1927. Un periodo fatto di incontri straordinari, di concerti, di nuovi studi sulla trasmissione delle onde che lo portano a sviluppare prototipi di nuovi apparecchi. La vita di Theremin viene stravolta dall’incontro con Clara Reisenberg, una giovane violinista, con cui si illude possa nascere una storia d’amore e che per lui diventa una vera e propria ossessione. Allieva, poi grande interprete dello strumento da lui inventato, rimane una musa da cui non riesce a prendere le distanze.

Grazie al theremin incontra Rockefeller, Gershwin, Bernard Shaw, Glenn Miller, Somerset Maugham. Frequenta i jazz club, diventa ricco e famoso. Ma il crollo dell’economia statunitense nel 1929 segna una battuta d’arresto, mentre i suoi connazionali, che dall’arrivo negli Stati Uniti lo hanno affiancato ad uno strano individuo, Pash, che consiglia e suggerisce a Leon quali sono le persone da avvicinare e gli affari da concludere con i soci americani, si fanno sempre più pressanti. E’ il modo in cui il Cremlino cerca di infiltrarsi nella patria del capitalismo, il passepartout per aprire le porte dello spionaggio industriale direttamente nel cuore degli Stati Uniti. A poco a poco, Leon è costretto a sporcarsi le mani direttamente, Pash è scomparso e accanto a lui sono comparsi due uomini dai modi assai più bruschi. Dopo dieci anni negli Stati Uniti è costretto a tornare in Unione Sovietica.

E’ durante il viaggio a bordo della “Staryj Bol’sevik”, la nave che ha il compito di riportarlo in patria, che Lev scrive una lunga lettera a Clara, suo unico vero amore, ricordando tutta la sua vita.

Certe notti, sulla Staryj Bol’ševik, sento i suoni dell’esterno. Premo l’orecchio all’acciaio e oltre i cigolii della nave, le viti che si allentano e si stringono nelle pareti, sento i gabbiani. Urlano e fischiano. Altre volte sento le balene; credo che siano balene; è un lamento in quattro colori. Con l’orecchio premuto sull’acciaio, sento questo richiamo che è come molti richiami insieme. Antichi blu, grigi, rossi, oro, uno in cima all’altro a formare un accordo. Un giorno costruirò un pianoforte che suoni l’eco delle balene.

In Russia tante cose sono cambiate da quando è partito, nulla è più come prima. Al potere siede Stalin e il sospetto e la circospezione regnano sovrani. La paura è tangibile anche nel suo vecchio istituto dove si presenta alla ricerca di qualche aggancio per tornare a lavorare. Il suo tentativo di cercare contatti, unito al troppo entusiasmo con cui parla dell’America e della sua vita là, lo portano dritto alla prigione di Butyrskaja e successivamente a Kolyma, lager in Siberia, dove spariscono milioni di persone. E’ accusato di tradimento ai sensi dell’art. 38 (attività controrivoluzionaria) e condannato ai lavori forzati per otto anni.

Ancora una volta saranno le sue capacità tecniche a farlo sopravvivere e a dargli l’opportunità di nuovi studi e nuove scoperte.

Il romanzo di Sean Michaels riesce a fondere, in modo convincente, realtà e finzione, dando la possibilità di conoscere la vita avventurosa di un uomo dotato di grandi capacità, che passò dalla libertà degli Stati Uniti al gelo della Siberia. Personalmente ho trovato la parte americana, seppur affascinante e capace di restituire lo swing della fine degli anni venti: i locali di jazz, i musicisti, la dinamicità dell’epoca, un po’ ripetitiva. Così come mi ha convinto poco la storia d’amore con Clara. Un amore più immaginato che vissuto. Clara diventa per Lev una sorta di donna ideale a cui ispirarsi, a cui tendere, a cui aggrapparsi nei momenti peggiori.

E’ la parte ambientata in Russia, quella che mi ha coinvolto di più. La descrizione di un mondo grigio, fatto di sospetti, di accuse spesso infondate, di incarcerazioni sommarie e poi di deportazioni nelle infinite e gelide pianure della Siberia, dove la sopravvivenza spesso è frutto del caso. L’idea che tutto possa essere punito, solo perché così vuole il grande leader Stalin, che spezza così qualsiasi anelito di libertà e desiderio di una vita migliore. Nelle pagine dedicate alle torture subite da Therenim e all’orrore dei gulag, ci sono le pagine più dolorose ma intense del romanzo.

L’eco delle balene di Sean Michaels – Keller editore (2019) – pag. 425

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