V13

Difficile dimenticare venerdì 13 novembre 2015, difficile anche se non si è francesi, anche se non si è perso nessuno, anche se abbiamo solo assistito alle immagini di devastazione e morte attraverso un televisore.

Una serata relativamente mite, nonostante sia metà novembre, tanta gente in giro, seduta nei dehors all’aperto nei tanti bistrot dell’XI arrondissement, coppie, amici, famiglie, all’improvviso colpi d’arma da fuoco. Una serie di attacchi terroristici colpisce a poca distanza di minuti l’uno dall’altro il Bataclan, teatro in cui si stava tenendo un concerto degli Eagles of Death; lo Stade de France, dove era in corso la partita tra Francia e Germania, e i locali affollati de La Belle Équipe, Le Carillon, Le Petit Cambodge, Café Bonne Bière, Casa Nostra, il Comptoir Voltaire.

Sei anni dopo, Emmanuel Carrère fa parte dei giornalisti ammessi ad assistere al processo che cercherà di far luce su quegli attentati. Per dieci mesi, Carrère si siede con altri giornalisti su una panca di legno in un’aula costruita appositamente nell’atrio del tribunale a Île de la Cité, perché nessuna delle sale del palazzo di giustizia è abbastanza grande da contenere 600 persone. E ascolta. Ascolta le ricostruzioni di ciò che è avvenuto, le testimonianze dei sopravvissuti, le parti tecniche, i poliziotti belgi, i periti, le parole e i silenzi degli imputati, le arringhe dei Pubblici Ministeri, delle difese, delle Parti Civili. E scrive su un taccuino, riportando settimanalmente sull’«Observateur» la cronaca del processo. Un processo enorme durato dieci mesi.

Quel materiale, integrato e rivisto è confluito in questo testo che ha il grande pregio, come tutti i testi di Carrère, di porre al lettore, nonché a se stesso, delle domande. Domande senza riposta. E’ possibile la giustizia in un caso simile? O il perdono? Quali sono le radici della radicalizzazione? Quanto la cecità e l’arroganza dell’Occidente ha avuto un peso sulla rabbia dei terroristi? Da cosa nasce il fanatismo? Perché uno decide di farsi saltare in aria portando con sé degli innocenti? Cosa pensavano i terroristi in macchina mentre andavano a compiere le stragi? Perché uno di loro a un certo punto ha deciso di lasciar perdere, di slacciarsi la cintura con l’esplosivo e scappare?

Forse questo è un libro sulla giustizia, o sulla sua impossibilità. Forse sul perdono. Forse sulle radici della radicalizzazione. Forse sulle colpe dell’Occidente. Ma è soprattutto un libro sulle domande irrisolte

C’è chi è sopravvissuto ma ha perso chi amava. Chi vuole tornare a vivere anche se gli incubi e la paura sono diventati compagni inseparabili. Chi ha ricevuto ferite talmente gravi che la sua vita è radicalmente cambiata. Chi ha dovuto affrontare un percorso di ricostruzione sia fisico che psicologico. Chi non ce l’ha fatta a superare l’ansia, il dolore, la paura, le immagini impresse nel cervello, perché quello che ha vissuto non gli ha permesso di sopravvivere e si è ucciso a distanza di qualche anno: per questo viene considerata la centotrentunesima vittima del 13 novembre 2015.

C’è Nadia, egiziana, madre di Lamia, insegnante d’arabo, che si domanda come dei coetanei della figlia abbiano potuto organizzare e fare una cosa simile.

C’è Georges, anche lui ha perso sua figlia Lola, che ha voluto incontrare Azdyne Amimour, padre di uno degli assassini di sua figlia e con lui ha scritto un libro a quattro mani perché crede nella cosiddetta «giustizia riparativa».

E ci sono i carnefici, gli attentatori, ragazzi che hanno scelto di togliere la vita a loro simili, a loro coetanei per portare distruzione e morte in Europa, in Francia, in mezzo a quella generazione di persone che cercano di realizzarsi, di vivere al meglio la propria età. Le loro storie apparentemente tutte uguali, iniziano con il fallimento della Primavera araba, con quella ventata di libertà e di democrazia che annega nel sangue e porta con sé un’infinità di guerre; con la successiva decisione di partire per la Siria e combattere per lo Stato islamico a Raqqa, una decisione radicale che li porta dritti all’inferno. All’inizio del processo chiedono se sarà data la parola anche a quelli che sono stati bombardati in Iraq e Siria, sottolineando come anche la Francia ha sganciato bombe che hanno causato centinaia di vittime altrettanto innocenti, perché «i bombardamenti chirurgici sono un mito». Un avvocato sostiene che gli attacchi del 13 novembre dovrebbero essere riclassificati non come attacchi terroristici ma come crimini di guerra.

«Tutto quel che dite su noi jihadisti, è come se leggeste l’ultima pagina di un libro. Il libro dovreste leggerlo dall’inizio»

Emmanuel Carrere nella ricostruzione del processo ai terroristi di venerdì 13 novembre 2015 dà voce alle testimonianze di chi c’era ed è sopravvissuto, ai familiari che hanno perso un figlio, un marito, un amico, ma cerca anche di capire il perché, da dove nasce l’odio che spinge a farsi saltare in aria, per rivendicare cosa si è disposti a morire portando con sé tanti altri.

E porta il lettore a cercare di comprendere l’incomprensibile.

Anche perché a processo non sono andati la mente ma la bassa manovalanza. Chi ha pensato, organizzato, strutturato gli attentati è morta, o saltata in aria o è stata catturata in modo rocambolesco e violento dopo.

La penna di Carrere è lucida, precisa, allo stesso tempo da grande narratore ed affabulatore, sa aprire digressioni dentro digressioni, raccontando piccole storie, illuminando istantanee di chi è morto o di chi ha perso un suo caro, inserendo Dostoevskij, il concetto di taqiyya, cioè di dissimulazione, principi di diritto e tabelle di risarcimento, descrivendo i dilemmi che inevitabilmente si hanno quando si cerca di comprendere anche quello che è lontano da noi.

Un libro da leggere e rileggere, assaporando lo stile e fermandosi a riflettere su un principio, un ambiguità, una domanda che Carrère, cesellatore di dubbi, da vero intellettuale, inserisce per sovvertire finti equilibri.

V13 Cronaca giudiziaria di Emmanuel Carrere – Adelphi (2023) – traduzione di Francesco Bergamasco – pag. 267

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