Vita e destino: romanzo, saggio, ma soprattutto mondo intero

Vita e destino è un libro estremamente complesso così come lo è Stalingrado. Sono romanzi, ma anche saggi, libri storici, ma anche filosofici, difficile farli rientrare in un’unica categoria. Sono libri fiume sia per la mole (quasi mille pagine entrambi) sia per i tanti rivoli, le tante storie che si portano dentro. Spesso ci si perde tra i tanti nomi russi, spesso simili, o nelle vicende di personaggi le cui storie che sono racchiuse in poche righe e poi più nulla.

Grossman riesce però a fare un ritratto della vita e della società russa durante la seconda guerra mondiale, concentrandosi su Stalingrado, città simbolo per il duro assedio, che, stretta in una morsa dall’esercito nazista, riuscì – grazie alla resistenza e al valore della cittadinanza e dei soldati che la difendevano e che avevano resistito per mesi alla fame, al freddo e ai costanti bombardamenti – a rovesciare la situazione e, grazie ad una manovra a tenaglia dell’esercito russo che imprigionò nella sua morsa la VI armata di Paulus, vide l’arresa dei tedeschi e l’inizio del crollo del potere del Terzo Reich.

Vita e destino riparte esattamente da dove si era interrotto Stalingrado, ritroviamo gli stessi personaggi. Al centro della narrazione c’è ancora la famiglia Šapošnikov, sebbene sia stata sparpagliata qua e là dalla guerra e dagli avvenimenti che li hanno visti coinvolti, a partire dall’anziana matriarca Aleksandra Vladimirovna, con la sua etica incrollabile, che vede affetti e certezze sbriciolate, ma ancora si preoccupa per tutti.

Loro provavano una naturale, assoluta indifferenza per gli altri, per il bene comune, per le sofferenze altrui. Lei, invece, agli altri ci pensava, se ne preoccupava, era capace di gioire o di perdere le staffe per cose che non riguardavano né la sua vita né quella dei suoi cari… L’epoca della collettivizzazione forzata, il Trentasette, il destino delle donne finite nei lager per colpa dei mariti, quello dei loro bambini rinchiusi negli orfanotrofi e adottati dopo che le loro famiglie erano state distrutte, le rappresaglie dei tedeschi sui prigionieri, le tragedie e le sventure della guerra la tormentavano e le toglievano la pace al pari delle disgrazie di casa sua. E non l’aveva imparato dai libri che leggeva, né dalle tradizioni rivoluzionarie della casa in cui era cresciuta, né gliele avevano insegnato la vita, gli amici o il marito, Era fatta così lei, non avrebbe saputo comportarsi diversamente.

Se in Stalingrado l’andamento ad episodi era il fulcro del libro in Vita e destino l’autore, pur divagando ancora qua e là, si concentra soprattutto sulle vicende di tre dei protagonisti già tratteggiati in Stalingrado: i tre mariti delle sorelle Šapošnikov.

Spiridov, direttore della Centrale idroelettrica, pagherà con la retrocessione a direttore di una piccola centrale a torba negli Urali, l’essersi allontanato dalla centrale e da Stalingrado poche ore prima dell’offensiva russa, nonostante avesse resistito ai bombardamenti, alla fame, alle condizioni proibitive ed avesse vissuto all’interno di quella stessa centrale per quasi cinque mesi con la figlia incinta.

Strum, fisico teorico, che vivrà tutti i dubbi, le incertezze e soprattutto i cambi di atteggiamento dei colleghi e di chi gli sta intorno dopo una cruciale scoperta, fatta per caso dopo una serata trascorsa tra discussioni e punti di vista anche eretici rispetto all’ideologia corrente. Prima la sua scoperta verrà accolta con stupore e meraviglia, poi verrà tacciato di essere talmudico, allontanato dai suoi laboratori, esempio di decadenza occidentale, perché la sua straordinaria scoperta è contraria all’ideologia sovietica; lui si opporrà all’abiura che gli chiede la comunità scientifica, pronto a sacrificare tutto pur non di non piegarsi. Infine, dopo una telefonata di Stalin in persona, sarà osannato e sostenuto da tutti, mostrando ancora una volta la forma dell’opportunismo e il pericolo più grande per ogni sistema sociale: l’omologazione di tutto il popolo, compresa l’intellighenzia.

Ma soprattutto Krymov: la sua parabola umana e politica rappresenta il fulcro e il centro del romanzo, l’esempio più paradigmatico di tutto il libro. Uomo tutto d’un pezzo, fedele all’idea comunista, commissario di partito, finirà nel carcere della Lubjanca e poi in Siberia dopo essere stato accusato di tradimento, sabotaggio, nonché di essere nemico del popolo. Sperimentando, così, la spietatezza dell’onniscenza di uno Stato tirannico, diviene vittima lui stesso della persecuzione fondata su sospetto, delazione e coercizione.

Grossman già in Stalingrado aveva mostrato alcune delle storture del comunismo, aveva criticato alcune posizioni radicali, di fronte, però, alla brutalità e alla violenza degli avvenimenti e all’incrudelirsi del regime staliniano, mise in discussione i vecchi ideali socialisti: la collettivizzazione del ’37, le uccisioni e deportazioni di massa dei contadini, i kulaki, cui erano state confiscate le terre dallo Stato non potevano passare sotto silenzio.

Se in Stalingrado la critica a Stalin e all’utopia comunista era ancora velata qui diventa preponderante, fino a portare l’autore, tramite un dialogo tra lo Sturmbannführer Liss e il vecchio comunista Mostovskoj a domandarsi neppur troppo velatamente quale sia la differenza tra Hitler e Stalin. Entrambi obnubilati dal culto della persona, liberticidi e dittatori.

«Quando io e lei ci guardiamo in faccia, non vediamo solo un viso che odiamo. È come se ci guardassimo allo specchio. È questa la tragedia della nostra epoca. Come potete non riconoscervi in noi, non vedere in noi la vostra stessa volontà? Il mondo non è forse pura volontà anche per voi? Vi si può forse indurre a esitare? Vi si può fermare? […] Voi credete di odiarci, ma è solo un’impressione: odiando noi  odiate voi stessi. Tremendo, vero? Mi capisce?»

«L’umanità odia noi e guarda con speranza la vostra Stalingrado? E così che dicono? Sciocchezze! Non c’è nessuna abisso tra di noi! Se lo sono inventato. Siamo due ipostasi della stessa sostanza: uno “Stato partito”.»

In mezzo le vicende dei lager comunisti e nazisti e la persecuzione ebraica che trova prima nella lettera ricevuta da Strum da parte della madre, già citata nel primo libro, poi nella descrizione minuziosa ma anche poetica del viaggio di Sofia con Davide dai carri bestiame alla camera a gas la sua pagina più intensa ed indimenticabile.

Respirava; ma anche respirare era diventato un lavoro, una fatica, e per respirare Sof’ja Osipovna impiegava ogni forza rimasta. Avrebbe voluto concentrarsi su un ultimo pensiero, mentre le campane suonavano a stormo. Ma non veniva, quel pensiero. Restava in piedi, muta, senza chiudere gli occhi ormai ciechi. David, i suoi gesti: che pena provava! Era talmente semplice, ciò che sentiva per lui, che non aveva più bisogno di parole, né di occhi. Respirava ancora, quel ragazzino più morto che vivo, ma l’aria che riceveva non gli allungava la vita, la allontanava da lui. Continuava a voltare la testa, David, aveva ancora voglia di guardare. E vedeva chi già si accasciava, vedeva bocche spalancate e senza denti, bocche con denti bianchi e denti d’oro, vedeva rivoli di sangue uscire dalle narici. E vide due occhi curiosi che fissavano la camera a gas da dietro il vetro; per un attimo gli occhi attenti di Rose incontrarono gli occhi di David. A lui serviva la voce. Avrebbe voluto chiedere a zia Sof’ja di quegli occhi da lupo. E gli servivano anche i pensieri. Aveva fatto giusto qualche passo, nel mondo. Aveva visto orme di calcagni nudi di bambino sulla terra calda e polverosa, la sua mamma era a Mosca, la luna guardava giù, e da giù gli occhi si levavano a guardarla; la teiera era sul fuoco; e il mondo del mondo senza teste, il mondo delle rane che costringeva a ballare reggendole per le zampe anteriori, il mondo del latte del mattino era ancora lì, con lui. Braccia forti e calde lo tennero stretto tutto il tempo, e David non si rese conto che i suoi occhi cominciavano a non vedere, che il suo cuore si svuotava e non sentiva più nulla, che il suo cervello era cieco e vuoto anch’esso. Lo avevano ammazzato, aveva smesso di esistere. Sof’ja Osipovna Levinton sentì il corpo del ragazzo spegnersi tra le sue braccia. Li avevano separati di nuovo. Nelle miniere, in presenza di gas velenosi, i rilevatori – topi e uccelli – muoiono subito perché sono piccoli, e anche quel ragazzino dal corpo d’uccello se n’era andato prima di lei. Sono diventata madre, pensò. Fu il suo ultimo pensiero. Ma il suo cuore era ancora vivo: una stretta dolorosa, pietà per voi, per i vivi e per i morti; poi un conato: Sof’ja Osipovna strinse a sé David, bambola senza vita, e morì, bambola senza vita anche lei.

Non è Facile leggere Vita e destino un libro che concentra un’infinita serie di riflessioni sull’uomo, sulla vita, sul bene e sulla bontà e soprattutto sulla libertà. Un libro filosofico, concettuale, che attraverso dialoghi fra i personaggi o cambi di ritmo che portano la narrazione a farsi saggio accendono tantissime considerazioni e pongono un’infinità di domande. In particolare la differenza tra bene e bontà, che solo apparentemente sono la stessa cosa.


«Là dove c’è violenza,» spiegava Ikonnikov a Mostovskoj «regna il dolore e scorre il sangue. Le ho viste, io, le sofferenze immani dei contadini, e la collettivizzazione era a fin di bene. Non ci credo, io, nel bene. Io credo nella bontà.» […] «Se lo chiede a Hitler,» disse Ikonnikov «le dirà che anche questo lager è a fin di bene.» […] «Il mondo non ha ancora trovato una verità superiore a quella espressa nel VI secolo da un cristiano di Siria: “Condanna il peccato e perdona il peccatore”» ripeteva Ikonnikov.


«E allora, forse, è la vita il male?
Ho visto la forza incrollabile dell’idea del bene sociale, che è nata nel mio paese. L’ho vista nel periodo della collettivizzazione forzata e nel Trentasette. Ho visto uccidere nel nome di un ideale bello e umano come quello cristiano. Ho visto le campagne morire di fame, e i figli dei contadini che morivano tra le nevi della Siberia; ho visto le tradotte che da Mosca, Leningrado e altre città della Russia portavano in Siberia centinaia di migliaia di uomini e donne, i nemici della grande, luminosa idea del bene sociale. Era un’idea bella e grande, e ha ucciso senza pietà, ha rovinato le vite di molti, ha separato le mogli dai mariti, i figli dai padri.
Ora nel mondo incombe il grande orrore del nazismo tedesco. L’aria impregnata delle grida e dei lamenti dei giustiziati. Nero è il cielo, e il sole si è spento nel fumo dei forni crematori.
Ma anche questi crimini – inauditi non solo per l’Universo, ma anche per gli uomini di questa terra, sono compiuti nel nome del bene.

Impossibile non domandarsi leggendo questo immenso libro quanto dolore e sofferenza hanno diffuso nel XX secolo le ideologie fasciste e comuniste, che partendo da un’idea assoluta di costruzione di una società perfetta, egualitaria, ideale, hanno invece immerso intere popolazioni in un incubo.

Alla fine, oltre alla grandezza delle riflessioni che ispira, alla profondità del pensiero umano, pieno di dubbi e tormenti, rimane l’affresco di una famiglia travolta dalla Storia, tanti ritratti di persone con pregi e difetti, piene di ardore tormentate, idealiste o fermamente ligie alla causa comunista, spazzate via da un dittatore o dalla guerra.

Che cosa l’aspettava? Aveva settant’anni e non sapeva rispondere. Ho la vita davanti, pensò. Che ne sarebbe stato dei suoi cari? Non lo sapeva. Dalle finestre vuote di casa sua guardava il cielo di primavera.

La vita della sua famiglia era caotica, confusa, poco chiara, piena di dubbi, di dolore, di errori. Come se la caverà Ljudmila? Pensava. Che ne sarà dei suoi problemi familiari? Cos’è accaduto a Sergej? Sarà ancora vivo? Neanche Strum se la passa tanto bene… e Vera? E Spiridonov riuscirà a riufarsi una vita, troverà un po’ di pace? Quale strada imboccherà Nadja, la piccola Nadja, intelligente, buiona e cattiva insieme? Vera si chgiuderà nella sua solitudine, nella sua miseria, bella fatica di vivere? E Zenja? Seguirà Krymov in Siberia, finirà in un lager anche lei? E ci morirà come ci è morto Dmitrij? Lo Dstato perdonerà a Sergej i suoi genitori morti senza colpa nel lager?

Perché le loro sorti erano così ingarbugliate, così oscure? Nel frattempo i morti, chi era caduto in guerra e chi era finito ammazzato in prigione, restavano accanto ai vivi. Aleksandra Vladimirovna ne ricordava i sorrisi, le battute, il modo di ridere, gli occhi tristi e smarriti, la disperazione e la speranza.

Quando l’aveva abbracciata Dmitrij le aveva detto «Non è niente, mamma, e soprattutto non preoccuparti per me, ci sarà brava gente anche nel lager…». E Sof’ja Levinton, con i capelli neri e la penuria sopra il labbro, giovane, arrabbiata e allegra, che recitava versi. E Anna Strum, pallida, sempre triste, intelligente e caustica. Tolja si ingozzava di pasta in bianco e le dava sui nervi perché faceva rumore masticando e non aiutava mai la madre: «Neanche un bicchiere d’acqua mi porta…». «Va bene, va bene, te lo prendo, ma perché io e non Nadja?». Marusja mia! Zenja ti prendeva in giro per i tuoi sermoni da maestrina, per come volevi indicare la retta via a tuo marito… Sei annegata nel Volga con il piccolo Slava Berezkin e con la vecchia Varvara Aleksandrovna. Me lo spieghi lei che cosa succede, Michaail Sidorovic! Ma cosa vuoi che ti spieghi sant’Iddio…

Sebbene confusi, colmi di marezza, di dubbi e di segreto dolore, tutti speravano di trovare la felicità. […]

Leggere Vita e destino è come partire per un viaggio nell’animo umano, nelle sue debolezze, ipocrisie e follie. Grossman però ci ricorda che ognuno di noi ha la possibilità di scegliere se morire da essere umano, oppure lasciarsi schiacciare dalla repressione del totalitarismo che priva l’uomo della sua stessa umanità facendolo diventare strumento di forze di sterminio. Un romanzo che non può lasciare indifferente e a cui si continua a pensare e a ragionare anche a mesi di distanza, come fa tutta la grande letteratura.

Dopo aver terminato la lettura non desta meraviglia il fatto che l’opera fosse considerata “eretica” dal regime sovietico, né che il KGB sequestrò le bozze e tutto il materiale scritto da Grossman, permettendo la pubblicazione in Russia solo nel 1988, durante l’età del disgelo di Michail Gorbačëv.

Un ultimo consiglio: personalmente consiglio di leggere Vita e destino dopo Stalingrado, poiché alcune delle vicende trattate trovano compimento o chiarezza in Vita e destino, e i personaggi narrati sono gli stessi.

Vita e destino di Vasilij Grossmann – Adelphi (2022) – pp. 982. Traduzione a cura di Claudia Zonghetti

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