Capolavoro? Per me, no

Ho amato ogni singola pagina di Jane Eyre: la costruzione della storia, la descrizione degli ambienti e dei paesaggi, l’intreccio e quel pizzico di gotico che affiora qua e là, i personaggi, sui cui spicca la protagonista la cui evoluzione è una delle più coerenti e coinvolgenti mai letta.

Avevo voglia, quindi, di confrontarmi di nuovo con Charlotte Bronte, nella speranza di essere travolta da una storia intensa, e avendo letto che questo romanzo, il suo ultimo, è considerato da molti il suo capolavoro, il momento più alto della sua produzione letteraria, era pronta a lasciarmi conquistare. Forse, come spesso accade, le eccessive aspettative, mi hanno fregato.

Mi sono trovata tra le mani un romanzo pesante, una protagonista piatta ed incolore, schiacciata dalla vita, alle prese con continue crisi personali, che sfociano spesso in allucinazioni e veri e propri deliri, con una attenzione morbosa verso la lotta tra “Papisti” (cattolici) e protestanti, costantemente convinta che si stia cercando di convertirla ad una religione che la spaventa e non le appartiene.

Una storia ripetitiva e noiosa che si contrappone ad un finale frettoloso.

Ho aspettato parecchio a scrivere queste righe volevo che le sensazioni si acquietassero, che le idee in qualche modo sedimentassero in me e soprattutto che arrivasse la rivelazione: quel non so che che scatta ad un certo punto e che il lettore, che non ha pienamente apprezzato il libro, attende fiducioso nella speranza che il suo convincimento venga misteriosamente ribaltato e che grazie ad una sorta di illuminazione, comprenda finalmente il senso del libro. Purtroppo non è accaduto. Sono rimasta perplessa da questa storia, irritata dalla protagonista e tutto sommato delusa da una storia che non è riuscita a coinvolgermi né convincermi.

Ulteriore elemento negativo è stata l’edizione Fazi che trascura di tradurre dal francese una buona parte di libro, facendo fare al povero lettore (che poliglotta ahimè, non è; né tanto meno fine conoscitore della lingua di Moliere) una fatica boia, impedendogli, di fatto, di apprezzare in pieno ciò che sta leggendo.

Nell’Inghilterra vittoriana della metà dell’Ottocento una giovane donna orfana, Lucy Snowe, decide di lasciare la patria e tentare fortuna sul vecchio continente, in un luogo immaginario, Villette, probabilmente la stessa Bruxelles dove l’autrice aveva vissuto ed insegnato. Un luogo a cui arriva più per caso che per vera e propria scelta e qui, sempre in modo fortunoso, si trova alla porta di un pensionato gestito da una intraprendente e vivace signora, Madame Beck, che dapprima la prende come governante delle figlie, poi come insegnante d’inglese per la sua scuola frequentata da ragazze di buona famiglia, che apprendono un po’ di arti in attesa di coronare lo scopo della loro vita: il matrimonio. La giovane Lucy è fin dall’inizio corpo estraneo della scuola, ha difficoltà di comprensione della lingua, pratica una diversa religione e soprattutto è schiva, timida, non ha alcun progetto per l’avvenire che non sia quello di mantenersi in modo onesto. La sua vita si intreccia più volte con quella della sua madrina, Mrs Bretton, il di lei figlio Graham, e due giovani fanciulle, una capricciosa e frivola, Miss Ginevra Fanshawe, l’altra posata e decisa, Miss Paulina de Bassompierre. Unico personaggio che dà un tocco di vivacità al romanzo è il professor Paul Emanuel, stravagante e originale – mentre leggevo lo immaginavo nelle fattezze del belga Hercule Poirot – che cerca di coinvolgere Lucy, sia bisticciando con lei e prendendola in giro per i suoi vezzi e le sue caratteristiche, sia coinvolgendola in varie iniziative. L’uomo, oltretutto, si rivelerà nascondere un passato alquanto enigmatico ed essere oggetto di trame ed intrighi degni di un thriller.

Eppure non bastano queste pennellate di colore, e soprattutto l’intreccio misterioso a far decollare un libro che rimane sempre sottotono.

Questo dipende, a mio parere, soprattutto dalla protagonista: una giovane donna senza casa, senza famiglia, che attende il cenno degli amici di sempre per poter partecipare a qualche evento, per essere parte di qualcosa. Lucy, infatti, non vive la sua vita, ma assiste ad una rappresentazione che non la riguarda completamente, di cui lei è più spettatrice che vera e propria interprete. Lucy non ha la forza di Jane, non ha il suo carattere e la sua personalità, è spenta, rassegnata, sballottata dalle tragedie della vita, in preda ad una confusione, ben rappresentata dalle tempeste meteorologiche che si scatenano frequentemente nel corso delle seicento pagine del romanzo.

Certamente Charlotte Bronte volle in queste pagine raccontare la confusione e il dolore che provava, dopo la morte dei fratelli e le tristi vicende della sua vita, ma la sensazione personale è che se avesse condensato un po’ e avesse impiegato meno pagine per dire sostanzialmente la stessa cosa, l’opera ne avrebbe giovato.

Villette di Charlotte Bronte – Fazi editore (2013) – pag. 634

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