E’ buffo come più si legga di un determinato argomento e più ci si renda conto di quante siano le cose che ancora non si sanno.
Nell’interessantissimo viaggio che stiamo compiendo con le ragazze del gdl #ilrazzismonellaletteratura ogni libro è come se rappresentasse un tassello per entrare più nel vivo della segregazione razziale e della violenza che le persone di colore hanno dovuto subire nella loro travagliata e tormentata storia.
Con L’autobiografia di Jane Pittman di Ernest J. Gaines abbiamo avuto l’occasione di riflettere su cosa accade agli schiavi “liberati” dopo la fine della guerra di Secessione. Nell’intenzione dell’esercito nordista la vittoria sul Sud arcaico e retrogrado avrebbe dovuto significare anche l’immediata fine della schiavitù, la liberazione di tutte le persone di colore e l’immediata possibilità di poter iniziare una vita libera senza condizionamenti e violenze. La realtà fu molto più complessa. I neri furono liberati, ma senza casa né lavoro, senza istruzione o prospettive, divennero spesso dei veri e propri sbandati che tentavano di raggiungere il nord nella speranza che le condizioni di vita cambiassero e fossero loro riconosciuti quei diritti che gli erano stati promessi. La fine della guerra rappresentò anche l’inizio del Ku Klux Klan, organizzazione che all’inizio voleva solo sostenere le famiglie dei Confederati e portare aiuto alle vedove e gli orfani di guerra, a poco a poco, però, oltre alla ferma opposizione all’estensione del diritto di voto ai neri, consolidò il proprio potere, confermando le leggi segregazioniste. La schiavitù di fatto era stata abolita, ma le condizioni di sfruttamento e di subordinazione della popolazione nera continuarono.
Nel romanzo, che si basa su un’immaginaria intervista che un giornalista fa ad una donna ultracentenaria, Jane Pittman, perché ricordi la sua vita e ricostruisca così una fetta della storia americana, si parte proprio dalla guerra di Secessione per arrivare alle lotte civili degli anni sessanta capitanate da Martin Luther King.
Ticey è solo una bimbetta di una decina d’anni quando l’esercito yankee arriva nella piantagione dove è schiava, lì un soldato la ribattezza con il nome di Jane, che da quel momento sarà per sempre il suo nome. Inizia così il suo lungo racconto, dalla disfatta dell’esercito confederato alla abolizione della schiavitù, all’allontanamento dalla piantagione con altri schiavi liberati verso il nord, all’incontro con sbandati che massacrano tutto il gruppo eccetto lei e un ragazzino di pochi anni, che Jane crescerà come un figlio.
La sua vita è un continuo avvicendarsi di persone, di incontri, un percorso di perdite e di addii, un percorso accidentato e per certi versi rinunciatario, perché Jane si accorge ben presto che per lei non c’è progressione e che il termine libertà è solo una parola. Qual è il significato che nasconde? E come si fa ad essere liberi se non si ha cibo, né riparo, se la violenza comunque imperversa al di là dei diritti sacrosanti che si professano?
Perché, se alla fine della guerra civile americana, con l’entrata in vigore del XIII emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d’America che sanciva l’abolizione della schiavitù, i neri ritrovarono ad essere, dall’oggi al domani, uomini liberi, in realtà erano completamente impreparati ad affrontare la vita in autonomia. Non avevano lavoro, non avevano una casa, non sapevano leggere e scrivere perché per generazioni non avevano fatto altro che servire l’uomo bianco, lavorare nelle piantagioni dell’uomo bianco, vivere nelle baracche a loro destinate e mangiare il cibo a loro riservato.
Libertà, quindi, come meta ambita, fulcro della narrazione, ma anche concetto da comprendere. Perché la libertà non è un diritto facile da esercitare. Per essere liberi occorre una progressiva presa di coscienza, imparare a volere, a pretendere quello che è tuo di diritto, essere prima di tutto interiormente indipendenti. Per le persone di colore che erano state private di tutto, a partire dalle loro radici africane, che spesso venivano vendute e passavano da una piantagione all’altra, che non avevano neanche diritto ai propri figli, che avevano sempre abbassato la testa ed obbedito all’uomo bianco, nella convinzione inculcata di essergli inferiore, la libertà era solo una parola. Una parola da riempire di significato e valore.
Sedevo lì a fissare Jimmy, pensando: Jimmy, Jimmy, Jimmy, Jimmy, Jimmy. Non è che non ci tengano a te, Jimmy; non è che non vogliano credere in te, ma non sanno di cosa parli. Parli di libertà, Jimmy. La libertà qui è potersi guadagnare da vivere e sentirsi dire dai bianchi che sei bravo. Ci sono delle tende nere appese alle loro finestre, Jimmy; trapunte nere coprono il loro corpo di notte; un velo nero copre i loro occhi Jimmy; e il loro ronzio, il ronzio, il ronzio nelle loro orecchie impedisce loro di decifrare ciò che hai da dire. Oh, Jimmy, non sei tu colui per cui avevano pregato? E non è stato forse Lui a mandarti qui? E quando ti hanno visto non ti volevano? Sì, ti vogliono, Jimmy, ma adesso che sei qui non capiscono niente di quello che gli dici. Vedi, Jimmy. vogliono che tu curi la loro pena, ma vogliono che tu lo faccia senza procurare loro dolore. E il dolore peggiore che puoi infliggere, Jimmy. è ciò che stai facendo adesso: cercare di fargli vedere che valgono tanto quanto l’uomo bianco. Vedi, Jimmy, gli è stato detto dalla culla che non era così, che non valevano più di un mulo. Tu continua a ripeterglielo ancora e ancora, per centinaia e centinaia di anni e loro inizieranno a crederci.
Un romanzo sicuramente meno appassionante di altri che abbiamo letto, meno d’impatto, seppur estremamente scorrevole, tanto da risultare quasi asettico. La narrazione appare sfilacciata, gli avvenimenti poco concatenati l’uno all’altro. Un romanzo che però invita a ragionare sul concetto difficilissimo di libertà e su come la liberazione degli schiavi fu per tanti un grandissimo inganno, il sogno che diventa utopia, la meta irraggiungibile e indefinita che si auspica, si ricerca ma non si raggiunge mai.
L’autobiografia di Jane Pittman di Ernest J. Gaines – Mattioli 1885 ( 2022) – pag. 293