La Fortuna di Valeria Parrella è solo apparentemente un romanzo storico che ricostruisce con maestria e vivacità il mondo della Pompei del 79 d.C., poco prima della devastante eruzione che ricoprì la città, mise fine a vite e destini, facendoci vedere la sua bellezza, l’opulenza delle ville, la quotidianità di chi l’abitava, attraversando le sue strade, perdendosi nei colori del mercato, respirando i suoi odori, immergendoci nella devozione agli dei, nei culti ad Iside. In realtà l’autrice sceglie di inserire in questo contesto storico così particolare alcune delle domande esistenziali che l’uomo si pone da sempre. Quanto conta il destino? Quanto condiziona la nostra vita? E siamo veramente liberi di scegliere? Domande che si fa il protagonista Lucio, ragazzo con il destino già scritto, che decide invece di prendere in mano il cono di Lachesi per svolgere il filo della vita nel modo che preferisce.
Credo che l’unica Parca con cui si possa a vere a che fare sia quella di mezzo. Certo, quella che mi aveva iniziato la vita l’aveva dovuta cavar via dalla terra tremante, e quella che reciderà il filo… ma a quell’epoca, chi ci pensava? Io alla morte non ci pensavo mai, anche se tutto l’insegnamento della filosofia e ogni statua del foto stava messa lì solo per questo. Ma a me interessava avere a che fare solo con la Parca di mezzo, quella che tesseva per mio conto il filo. E c’è stato un momento in cui ho capito che non la si poteva lasciar fare e che bisognava adoperarsi.
Fin dall’inizio descrivendo l’atteggiamento di Lucio l’autrice ci spinge a riflettere sul modo in cui noi affrontiamo certe cose.
Perché si può sempre vivere un giorno dietro l’altro, senza scossoni, senza cambiamenti, adagiandosi su ciò che si ha, con la paura verso i cambiamenti, le nuove esperienze, le sfide.
Del resto ci sono due modi di vivere: uno è avere sempre paura. Arrischiarsi il meno possibile, chiudersi in casa, fare sempre gli stessi movimenti, mangiare le stesse cose, incontrare le stesse persone, oppure proprio nessuno. Assumere che il giorno faccia il giorno e la notte la notte. Ascoltare l’agguato dei malanni, quasi tendere loro l’orecchio: a ogni prurito, ogni morso della fame, ogni dolore.
Quell’atteggiamento guardingo che ci spinge a non fare nulla, nel terrore costante della morte. Eppure per quanto rimaniamo fermi e non ci pensiamo e la aggiriamo, l’ansia dell’ignoto ci pone sempre di fronte alla stessa cosa: la nostra mortalità.
Meglio allora affrontarla la vita, viverla come una sfida, andando anche contro un destino scritto, afferrando dalle mani della Parca di mezzo, proprio quella Lachesi, che non tesse né recide ma svolge, il filo della vita.
Questa specie di disperazione sotterranea di mia madre emergeva a tratti e me la faceva amare di più, perché riconoscevo in essa, nell’accettazione di ogni cosa che arrivava, di ogni viaggio di mio padre, di ogni ruolo che gli altri si aspettavano da lei, il suo arrendersi alla Parca di mezzo. Ci si arrende, è giusto, è la cosa più saggia da fare e non comporta fatica: semplicemente, la si lascia filare. Io per me non lo volevo, ma lei forse aveva avuto me proprio per essersi arresa nell’attimo in cui avrebbe potuto tirarle via il suo filo di mano.
Ed è quello che decide di fare Lucio.
Lucio nato durante un terremoto.
Lucio ispirato dalla storia che gli raccontava sempre la sua vecchia balia Ascla, sulla Fortuna che come una stella luminosa bacia i suoi eletti.
Lucio che vuole, essere artefice del proprio destino, perché, nonostante il difetto alla vista che lo contraddistingue e un futuro già scritto che lo vuole Senatore a Roma, lui sogna il mare, vuole navigare, fare del mare il proprio orizzonte e e di un barca la propria casa.
Seguendo la vita di Lucio, la sua voglia di decidere per se’, allontanandosi dal destino scritto di un nobile, per realizzare un sogno, l’autrice ci porta tra i vicoli di Pompei, ci fa assaporare la vita che si viveva sotto l’ombra della montagna ricoperta di verde, dei costanti e continui terremoti che scuotevano la terra, senza destare grande preoccupazione. Ci porta a Roma, alla scuola di Quintiliano, ad ascoltare le poesie di Marziale dalla sua voce e a conoscere i due Plinio, il vecchio saggio e suo nipote. Fino all’eruzione che sconvolse Pompei e pietrificò per millenni i corpi di chi vi assistette.
Un romanzo di poche pagine, ma talmente denso da meritare di tornarci sopra e ragionarci ancora un po’. In cui ogni frase merita di essere sottolineata, in cui gli echi della cultura e filosofia antica si mischiano a quelle domande sempre attuali che da millenni l’uomo si pone.
Perché infondo ogni uomo sceglie se essere o meno autore della propria fortuna, se lasciar andare le cose come devono andare o se, scontrarsi con il mondo, e affermare la propria volontà. Una volontà che spesso cozza con quel Fato di cui non abbiamo controllo, ma che, ciò nonostante, merita di essere affermata a testa alta e per cui vale sempre la pena combattere.
“Io questo sapevo: che quando uno pensa che le cose finiscano, proprio in quel momento in cui devi bruciare tutto per abbandonare quello che è stato e far avanzare la memoria: trovi un ramoscello d’oro, e qualcosa si apre.”
La Fortuna di Valeria Parrella- Feltrinelli editore (2022) – pag. 139