La difficile arte di essere donna

Gironzolando per una libreria sono stata attirata da questa copertina che riproduce una donna di profilo con un enorme orecchino d’oro che spicca ancora di più sul maglione nero. Quando ho letto la trama, l’ambientazione e la descrizione dell’autrice ho deciso che doveva essere mio. Ama Ata Aidoo è una scrittrice africana, poco conosciuta in Italia, ma molto nota nel suo paese il Ghana, dove ha ricoperto anche la carica di Ministra dell’Istruzione. Grande scrittrice africana, autrice di poesie e romanzi, antesignana del movimento femminista, ha combattuto contro l’emarginazione della donna e la prevaricazione maschile in famiglia e nel lavoro. E tenere tra le mani questo libro, scritto nel 1991, (più di trent’anni fa) proprio nella settimana in cui sulla stampa imperversava l’orribile delitto di Giulia Cecchettin e infuriava la polemica sul patriarcato me lo ha reso ancora più prezioso.

L’autrice attraverso una scrittura ironica e tagliente, in una storia apparentemente leggera, riesce ad affrontare il tema dell’emancipazione femminile in una società ancora fortemente collegata a tradizioni e usanze antiche.

Esi ha un’istruzione a livello universitario, un lavoro nell’amministrazione pubblica, piuttosto impegnativo ed importante, il lavoro è centrale, le piace, ne ricava soddisfazione e nonostante sia molto brava in cucina, tutte le attività legate alla casa e alla famiglia le risultano estremamente pesanti. Il marito Oki, nonostante si sia innamorato di lei proprio per la sua indipendenza, la vorrebbe più presente, vorrebbe un altro figlio, e mostra sempre più segni di insofferenza verso la sua libertà ed autosufficienza. Esi non può far altro che iniziare ad interrogarsi su cosa vuole veramente, su cosa la rende felice e cosa non può assolutamente tollerare.

Attraverso le conversazioni e gli scambi con l’amica di lunga data, Opokuya, una infermiera diplomata, specializzata in ostetricia, che ha trovato una certa tranquillità nel suo menage familiare con 4 figli e un marito, Buki, si apre una finestra sulle relazioni amorose, sulla necessità dell’indipendenza femminile, e su come ruoli e schemi ingabbino le donne, le intrappolino in una serie di cliché. Opokuya, nonostante tutto non è così realizzata e felice nemmeno lei, anche lei vorrebbe qualcosa di più e di diverso, che nel caso specifico è incarnato dall’autovettura di famiglia, continuo oggetto di discussioni tra marito e moglie.

Tra i temi che vengono affrontati nel romanzo c’è il rapporto amicale, stretto ma non abbastanza da confidarsi fino in fondo cosa si agita nell’anima; lo stupro coniugale ancora più terribile perché non esiste un termine a cui ancorarsi nella lingua locale; la cultura poligamica, ancora vigente, ma non più sostenuta dalle basi culturali su cui si basava prima; la diffidenza della società verso le donne non sposate, vedove o divorziate o semplicemente single.

“Essere single è visto come un insulto alla gloriosa mascolinità dei nostri uomini” dice Opokuya.

Emerge anche il problema di come il colonialismo e l’importazione della cultura dei modelli e delle idee occidentali abbiano cambiato radicalmente e profondamente la società. In età pre-coloniale, le donne ghanesi svolgevano un ruolo relativamente importante nella società, non erano relegate a fare le donne di casa, le madri, ma ricoprivano cariche religiose ed erano parte attiva della vita economico-sociale della comunità locale. Tutto questo è stato travolto e modificato, svuotando i ruoli del passato, e importando le categorie coloniali. Essenziali per comprendere questo scollamento sono le figure della madre e della nonna – che ha una visione disincantata dell’amore e del matrimonio “L’amore?… L’amore non è sicuro… […] l’ultimo uomo che una donna dovrebbe mai pensare di sposare è l’uomo che ama” – di Esi, portatrici della saggezza e delle tradizioni locali.

Esi, la donna è sempre stata sminuita dal legame con un uomo. Una brava donna era colei che affrettava il passo della sua stessa distruzione. Rifiutare, in quanto donna, di essere distrutta era un crimine che la società individuava molto velocemente ed era rapida e severa a punire.

Mia principessa, non era questione di questo o quel tipo di matrimonio. Non era questione di essere l’unica moglie o una delle tante mogli. Non era questione di essere una moglie qui, là, ieri oppure oggi: prodotto del ventre del prodotto del mio ventre, era solo questione di essere una moglie. E’ questione di essere una donna, Esi, perché pensi che si dessero tanto da fare per una ragazza il giorno del suo matrimonio? Quando eravamo giovani ci dicevano che alle persone condannate a morte si concedeva qualsiasi desiderio alla vigilia dell’esecuzione. Che poi, sarà stato vero? Ma comunque, una ragazza il giorno del suo matrimonio era qualvolta di simile. La si riempiva di attenzioni perché quella cerimonia era il funerale di ciò che avrebbe potuto essere.

Ama Ata Aidoo costruisce una storia in cui spicca la vivacità dei dialoghi, tra amiche, con i genitori e con i rispettivi coniugi, a volte disseminati di proverbi (“i nostri anziani hanno un proverbio adatto a descrivere ogni situazione”) e mescola brillantemente la tradizione narrativa orale africana con il romanzo occidentale, trasformando la storia di Esi, strettamente radicata alla cultura africana in una storia di più ampio respiro che pone domande anche alla lettrice occidentale.

E dimostra ancora una volta come la letteratura sia sempre un arricchimento e una finestra su culture, usanze diverse, ma rispecchi anche uno spicchio di noi in cui riconoscersi a prescindere dalla latitudine.

Cambiare di Ama Ata Aidoo – Mondadori Oscar moderni Cult (2022) – traduzione di Sara Amorosini – pag. 213

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