La dolorosa storia di un popolo

Dopo aver letto ogni mattina a Jenin capisco perché è il libro che compare in ogni lista di libri da leggere per entrare nella questione palestinese.

In un romanzo che è anche epopea familiare, l’autrice ripercorre l’intera storia del popolo palestinese dalla Naqba (catastrofe) ai successive cinquant’anni, di cui stiamo assistendo ora agli ulteriori drammatici sviluppi.

C’era una volta una terra in cui viveva un popolo pacifico, coltivando fichi e olive, tra frontiere aperte, sole splendente e mare luccicante all’orizzonte. Lì in un piccolo villaggio ad Est di Haifa, chiamato ‘Ain Hod, l’anziano Yehya, iniziando la raccolta delle olive, dopo il richiamo alle preghiere, guarda con orgoglio la sua terra e i suoi figli Hassan e Darwish appena diciottenni. La sua famiglia trascorre un’esistenza serena traendo sostentamento da una terra fertile, generosa e ricca di tradizioni secolari. E’ l’inizio straniante e straziante di Ogni mattina a Jenin.

Una vita semplice legata al lavoro dei campi, a tradizioni antiche, a rituali ripetuti. Una vita travolta dall’arrivo degli ebrei. Reduci dai campi di sterminio, protetti dai sensi di colpa dell’occidente, da una politica miope che non tenne conto delle paure ataviche che il popolo eletto si portava dietro, con l’idea utopistica e superficiale che quella striscia di terra tra deserto e mare potesse dividersi in due e accogliere due popoli. La lotta è impari, da un lato c’è un popolo povero, praticamente disarmato e abbandonato a se stesso; dall’altro uno ricco, armato fino ai denti e appoggiato da influenti potenze.

[…] Ma quello che è successo in Europa…” Le parole di Ari sfumarono nelle terribili immagini dei campi di sterminio che entrambi conoscevano.

[…] “Proprio così, Ari. Quello che ha fatto l’Europa. Non gli arabi. Gli ebrei vivono qui da sempre. Per questo adesso ne arrivano così tanti, giusto? Pensavamo che fossero solo in cerca di un rifugio, dei poveracci che volevano solo vivere, invece hanno ammassato armi per cacciarci dalle nostre case.”

I sionisti, i fondatori di Israele non avevano nessuna intenzione di dividere in due quella terra, per loro era e sarebbe sempre stata la “terra promessa”, la terra delle loro origini millenarie, il luogo dove sorge Gerusalemme, la città santa. Non si posero nemmeno il problema che non fosse un deserto disabitato, ma una terra abitata da un popolo che viveva lì da più di quaranta generazioni. Iniziarono a scacciare i palestinesi dalle loro case, li costrinsero con la violenza a lasciare tutto: i loro ricordi, il lavoro, la vita, per ridurli a vivere in campi, circondati dai soldati, vivendo senza un domani. Costretti a dipendere in tutto e per tutto dagli israeliani, senza terra, senza identità, senza futuro, alla mercé dei capricci dell’invasore. E’ il 1948 e per i palestinesi è l’anno della Naqba la catastrofe.

Yehya calcolò quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere e ginocchia sbucciate. Quaranta generazioni di peccati e carità, di cucina, duro lavoro e ozio, di amicizie, ostilità e accordi, di pioggia e corteggiamenti. Quaranta generazioni con i loro indelebili ricordi, segreti e scandali. Tutto spazzato via dal concetto di diritto acquisito di un altro popolo, che si sarebbe stabilito in quello spazio rimasto libero e l’avrebbe proclamato – con il suo patrimonio di architettura, frutteti, pozzi, fiori e fascino – retaggio di forestieri ebrei arrivato da Europa, Russia, Stati Uniti e altri angoli del mondo.

Susan Abulhawa racconta la storia della famiglia Abulheja, la storia di quattro generazioni: dal nonno cacciato dal suo pacifico villaggio, alla vita nel campo profughi di Jenin, fino ad Amal cresciuta in quel campo posticcio e provvisorio, trasferitasi negli Stati Uniti, ma poi tornata con la figlia Sara alla ricerca delle proprie radici.

Una storia scandita da una normalità fatta di dolore, povertà, ma anche di attimi di gioia e di spensieratezza. La vita nei campi profughi è sottoposta a continui, ripetuti, costanti umiliazioni, controlli, violenze. Eppure per Amal quella è la normalità: la sua amicizia con Huda; la bambola senza braccio da curare in una sorta di casetta costruita di terra in mezzo ai campi; la cuginetta Aisha che le muore tra le braccia durante un bombardamento; la follia della madre; le torture inferte al fratello; il padre che non sa dove sia finito, sono tutti istanti della sua vita. Una vita che sarà un’andata e un ritorno, un costante ritorno verso quella terra massacrata, verso un destino che l’aspetta.

E tante altre sono le immagini che rimangono di questo doloroso romanzo: la bellezza di Dalia, il suo essere testarda e anticonvenzionale, uno spirito indomito, una zingara selvaggia, figlia della poesia e dei colori beduini che viene spezzata dal dolore e imprigionata in un corpo ormai privo dello spirito. L’amore per i cavalli di Darwish ridotto su una carrozzina per aver difeso la suo superba cavalcatura. Il desiderio di rivedere la sua terra, toccare i suoi alberi di Yehya. L’amicizia di Hassan e Ari. Il destino di David. Il dolore di Yussef. Le storie di Hajj Salim un uomo sagace e bonario che nel campo profughi tramanda ai bambini il patrimonio di folklore e di proverbi palestinesi.

Susan Abulhawa, in un romanzo straziante, commovente, ma anche estremamente coinvolgente e intenso, riesce a cogliere molte prospettive evidenziando le luci e le ombre di una situazione in cui spesso i torti e le ragioni sono l’avvio di una nuova spirale di violenza. Pur dando voce al dolore e alla disperazione di un popolo oppresso, di cui troppo spesso la comunità internazionale si è dimenticata, non incita all’odio, consapevole che vendetta chiama solo vendetta, in un loop di ferocia senza fine.

Era il 31 marzo 2002.

Il 20 marzo un attentatore suicida aveva ucciso sette israeliani in Galilea come rappresaglia per i trentun palestinesi uccisi da Israele il 12 marzo, come rappresaglia per gli undici israeliani uccisi l’11 marzo a loro volta come rappresaglia per i quaranta palestinesi uccisi l’8 marzo da Israele, e così via e così via.

Un romanzo assolutamente da leggere, perché seppur impotenti di fronte all’indifferenza di chi forse potrebbe fare qualcosa, non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla profonda ingiustizia della cosiddetta questione palestinese. Perché non possiamo continuare a distinguere tra vittime e carnefici, né dover ogni volta premettere che siamo contro il terrorismo di Hamas e assolutamente non antisemiti. Vedere che cosa fa la politica sionista non vuol dire dimenticare i sei milioni di morti della Shoah. Ma non si può continuare ad avere due pesi e due misure né considerare alcune vittime di serie A e altre di serie Z.

«Avete paura che il mondo veda quello che fate ai bambini?» «Zitta. Ti ammazzo qua su due piedi, se no» la minacciò lui alzando il fucile ma, stranamente, con un sorriso sul volto. Imperturbabile, la suora rispose: «Spara. Non siete diversi dai nazisti che volevano impedirmi di prendermi cura degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale».

Eppure alla fine l’amarezza delle parole di Huda risuonano ancora in me

“Il mondo non può permettere che questo continui” dissi ad Huda.

“Il mondo?” chiese Huda sarcasticamente, retoricamente, e con una profonda amarezza. Da quando al ‘mondo’ importa qualcosa di noi? Sei stata via troppo tempo, Amal. Vai a dormire adesso. Parli come un’americana.”

Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa – Feltrinelli (2011) – traduzione di Silvia Rota Sperti – pag. 385

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