Quando ho pescato dalla libreria di mio figlio questo libro, sapevo di tenere tra le mani un cosiddetto classico della letteratura, ma non sapevo né di cosa parlasse né in quale strano viaggio mi avrebbe condotto.
Già dalla prima scena in cui veniamo introdotti nel salotto dove siedono George, Harris, Montmorency – che scopriremo poi essere un fox terrier dall’aspetto angelico ma dall’indole subdolamente dispettosa – e la voce narrante, veniamo catapultati tra amici accomunati dall’essere ipocondriaci, infatti sono tutti e tre esauriti e con i nervi a pezzi. Il narratore, addirittura, non può leggere neanche l’avviso pubblicitario di un farmaco senza veder spuntare magicamente e all’improvviso tutti i sintomi che la medicina dovrebbe curare.
Per sfuggire questo stato di cose e a parecchia noia, data anche da “la generale avversione nei confronti di qualsiasi tipo di attività” e la convinzione che lavorare sia sopravvalutato,
“Il lavoro mi affascina. Posso stare seduto a guardarlo per ore.”
decidono di fare un viaggio che sia però il più tranquillo possibile.
L’idea di optare per un soggiorno in barca per risalire il Tamigi, piace a tutti perché lo reputano un viaggio a basso costo di energia, con la possibilità di rifugiarsi in qualche albergo lungo la costa, dove trovare ciò che serve e ripararsi in caso di mal tempo.
Iniziano quindi a preparare bagagli e provviste – la cui quantità spropositata sarà protagoniste di una ricetta dello stufato alla irlandese, leggendario piatto in cui viene gettato in pentola praticamente qualsiasi cosa, ottenendo una pietanza indescrivibile e molto nutriente! – e partono dopo aver “dirottato” un treno postale per farsi portare al luogo d’imbarco.
Fin dall’inizio la narrazione unisce il racconto delle disavventure dei tre, con aneddoti che riguardano amici, luoghi o situazioni. Lo stile divagante fornisce spesso lo spunto per racconti umoristici, come la storia di un enorme pesce appeso sulla parete di una piccola locanda sul fiume, di cui tutti quelli che entrano si dichiarano essere gli artefici della fortunata pesca. In mezzo la descrizione dei paesaggi che passano sotto i loro occhi. Ovviamente ad ogni luogo è associato un avvenimento della storia inglese, dal luogo dove fu firmata la famosa Magna Carta, evento probabilmente sopravvalutato, però simbolicamente pregno di significato per l’affermazione di alcuni diritti fondamentali, a quelli che sono stati teatro degli incontri fra Enrico VIII e Anna Bolena – e qui l’autore immagina lo scoraggiamento dei paesani cinquecenteschi, esasperati dal fatto di incontrare ovunque, e di conseguenza cercare di schivare, la coppia di piccioncini…
Un romanzo piacevole, dove il famigerato humour britannico regna incontrastato e che fa venir voglia di organizzare un bel viaggio lungo le rive del Tamigi proprio per ripercorrere quanto raccontato da Jerome. Non per nulla l’autore inglese si era ispirato alla sua luna di miele, sostituendo la figura della moglie, Ettie, con quelle dei due amici scapestrati per accentuare la comicità della situazione, e aveva pensato all’opera come una sorta di guida di viaggio, che illustrasse le bellezze dell’Inghilterra rurale e la storia delle cittadine lungo il fiume.
E alla fine si comprende che il racconto ironico, la presa in giro bonaria, che non arriva mai all’esagerazione, concede quel sano distacco dalla realtà, che permette di distrarsi dai propri malanni e di vedere quanto la realtà faccia ridere. Cosa più che mai necessaria oggi come nel 1889.
Alla fine sono contenta di aver affrontato questo strano viaggio in barca lungo il Tamigi, in compagnia di tre amici scombinatati ed ipocondriaci e del cane Montmorency. Scoprendo angolini idilliaci, luoghi ameni, locande caratteristiche e tanta tanta storia locale. Ridendo dei racconti umoristici, ma anche ragionando sulle riflessioni sul senso della vita.
Tre uomini in barca (per non parlare del cane) di Jerome K. Jerome – D’Agostini Classici (2012) – pag. 284