Una donna, una madre

Mia madre è morta lunedì 7 Aprile nella casa di riposo dell’ospedale, dove l’avevo portata due anni fa.

Inizia così Una donna, con un dato di fatto; un dato scarno ed essenziale.

Anche mia madre è morta di lunedì, non di aprile ma di dicembre ad una settimana dal suo compleanno.

Leggere a un mese dalla sua morte un libro del genere non è stato facile, ma è stato terapeutico. Perché mi ha permesso di ragionare con l’autrice, in alcune pagine mi è parso di riflettermi in uno specchio, di trovare uno speculare ed incredibile incastro tra la vita raccontata nelle pagine e quella a cui anch’io stavo ragionando da un mese. Perché solo attraverso le parole si può cercare di raggiungere una verità sulla propria madre.

Cercare di ricostruirne la vita dopo che è morta, in un modo forse bizzarro ma necessario di renderle omaggio, di comprendere quei passaggi, quelle scelte, quei momenti che nel fluire dell’esistenza non avevamo afferrato, non avevamo saputo comprendere fino in fondo. Capire, soprattutto, quello che spesso i figli vogliono deliberatamente ignorare, che le madri hanno una vita e una storia a prescindere da loro, che c’è stato un prima in cui loro non esistevano.

Un modo per conoscerla meglio e per fissare nella memoria quello che, che inevitabilmente il passare del tempo a poco a poco cancellerà e per lo meno sbiadirà: l’immagine di colei che ci ha accompagnato ed è stata presente per tutta la vita, anzi addirittura prima che nascessimo. Perché accettare che colei che c’è sempre stata all’improvviso non ci sia più, non è per nulla facile. Eppure c’era quando ho iniziato a parlare, quando mi sono alzata in piedi barcollando, quando mi è spuntato il primo dentino, era presente il primo giorno di scuola, il giorno della laurea, quando ho scelto l’abito da sposa e quando mi sono sposata; c’era anche quando sono nati i miei due figli. Una strada lunga 53 anni fatta di abbracci, sorrisi, telefonate, chiacchierate fino all’una di notte, ma anche di discussioni furiose, litigate. Sempre pronta a consolarmi, ad asciugare le mie lacrime ad ascoltare i miei lamenti. Presente nella gioia e nel dolore. A volte ingombrante, eccessiva, sempre decisa a contestare le mie scelte, a darmi consigli anche non richiesti, ma è anche così che mi ha fatto sentire amata, considerata: sua figlia.

Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo.

Annie Ernaux scrive questo breve libro per ripercorrere la vita di sua madre e così facendo renderle omaggio e riacchiappare nei meandri della memoria la presenza più presente della sua vita. Tramite rievocazione, riflessione e indagine, la perdita della madre diventa occasione per riscrivere la sua figura e così riappropriarsene. Un viaggio tra i ricordi, compresi quelli più banali della quotidianità, per scandagliare il complicato rapporto tra una madre e una figlia, intriso di incomprensioni, risentimento, frasi non dette e di un amore viscerale.

Ed è quello che mi sono ritrovata a fare anch’io, ripensare alla vita di mia madre, ai suoi snodi, alle sue scelte, ai suoi dolori, ai momenti di incomprensione perché nonostante madre e figlia abbiano un rapporto simbiotico fortissimo, sono comunque due esseri separati e diversi.

Non è stato facile leggere questo libro senza esserne inghiottiti, proprio perché il mio lutto è così recente, ma il fatto che l’autrice non indulga alla commozione, il fatto che la sua lingua sia così scabra, così compatta e chirurgica aiuta. Quell’elemento razionale, che sento anche io che fa da schermo e da filtro al dolore, allo smarrimento della perdita.

Annie Ernaux ci accompagna a conoscere sua madre, bella e sfrontata prima, poi a poco a poco sempre più spenta. Una donna nata in campagna, che ha rinunciato alla scuola, che ha lavorato tutta la vita, che si è trovata vedova troppo presto, che si è trasferita più volte sfaldando i legami che aveva creato e che poi si è persa in una malattia che a poco a poco ha inghiottito il suo cervello, la sua capacità di discernimento e ha costretto la figlia a ricoverarla in una clinica. E lì la figlia ha sentito la sua impotenza e ha dovuto lottare con i suoi sensi di colpa.

Un sentimento che ho nutrito anch’io, seppure mia madre non sia mai stata ricoverata in una clinica, ma nell’ultimo mese tra ospedale e hospice, la necessità di stare con lei il più possibile, di nutrirla, di accudirla, di strapparle un sorriso sono gli stessi che racconta l’autrice francese.

E ancora una volta ho trovato innegabile il talento di Annie Ernaux di fare delle proprie vicende biografiche materia letteraria universale, che affonda le radici nella memoria collettiva e per questo diventa corale. Nella storia che racconta è impossibile non percepire un’eco della nostra esperienza personale. E tramite lo stile asciutto, parco, conciso che, però, entra dentro e sconquassa, ci regala il ritratto di una donna, con tutti i suoi pregi e difetti, incredibilmente forte e umana, che assomiglia a tutte noi, figlie e madri.

Una donna di Annie Ernaux [Une femme 1987]- L’Orma Editore, 2018 – Traduzione di Lorenzo Flabbi – pag. 112

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