Nel giorno del suo ottantacinquesimo compleanno davanti al figlio Thomas e alla nipote Camilla, vedendo il bellissimo braccialetto d’argento, un pezzo d’artigianato zingaro, frutto della perizia e della abilità artistica del suo popolo, dice: “Io non mi chiamo Miriam”.
“Un bracciale rigido in argento. Un bracciale molto largo, in filigrana d’argento a motivi intrecciati, dalle forme pulite nonostante le decorazioni, e di una bellezza infinita. Papà dice una voce dentro di lei, ma come al solito non dà retta alla nostalgia e scuote appena la testa per sbarazzarsene.”
Per sessant’anni Miriam è riuscita a nascondere dentro di sé la propria identità, ignorando la propria lingua, il proprio popolo, le proprie tradizioni, dimenticando persino il proprio nome, Malika. Per sopravvivere ha scelto di assumere il nome, la religione e il destino di un’altra ragazza, l’ha fatto perché ad Auschwitz e a Ravensbrück essere ebrei era comunque meglio che essere zingari.
“La ragazza smunta che aveva conosciuto all’arrivo aveva ragione: i nazisti odiavano gli ebrei più di quanto odiassero gli zingari. E però gli altri prigionieri disprezzavano gli zingari più degli ebrei. Il fatto era che nessuno, a parte le puttane e i ladri, sembravano disprezzare gli ebrei, mentre tutti si permettevano di disprezzare gli zingari.”
Dopo quell’affermazione per Miriam inizia un viaggio nella memoria, il ricordo della sua vita prima di essere strappata dalla sua casa, dal padre, dalla sua gente per essere rinchiusa in un convento di suore, e successivamente deportata ad Auschwitz.
Nella sua mente scorrono le immagini di Anuscha, la sua cuginetta, uccisa perché rifiutava di spogliarsi; il fratellino Didi, oggetto di esperimenti da parte di Menghele; Else Nielsen, la norvegese che l’ha presa sotto la sua ala e le ha permesso di sopravvivere a Ravensbrück; il lavoro continuo per undici ore nella fabbrica di confezioni; le marce; la cuccetta divisa con altre due, a volte, tre donne; la brodaglia e il pane secco fatto più di segatura che di farina; gli appelli continui; la fame; il freddo.
“Ben presto anche a Ravensbrück si instaurò la quotidianità. La fame quotidiana. La stanchezza quotidiana. Le risse quotidiane.
Appello. Decotto di barbabietole. Pane secco. Marcia fino alla fabbrica. Battere le ciglia per scacciare la stanchezza. Chinare la testa. Cucire. Cucire. Cucire. Per undici ore. Marcia dalla fabbrica. Zuppa. Pane secco. Cuccetta. Appello. Sonno. Sveglia! Appello. Decotto di barbabietole. Pane secco. Marcia fino alla fabbrica. Cucire. Cucire. Cucire. Per undici ore. Marcia dalla fabbrica. Zuppa. Pane secco. Cuccetta. Appello. Sonno.
Giorno dopo giorno.”
E poi la fine della guerra; il trasferimento in Svezia; le cure e la conoscenza con Hannah la volontaria della Croce Rossa che le ha insegnato tutto una volta uscita dal campo di sterminio. La sua capacità di imparare le lingue, la sua modestia e semplicità le hanno permesso di ricostruirsi una vita e “nascondersi” nelle pieghe di una vita agiata in un piccola città. Solo nei sogni e nel sonno può tornare ad essere Malika, ripensare alla sua lingua natia, rivedere i suoi cari. Non ha mai raccontato nulla di sé né della sua vera origine, né dell’esperienza vissuta nei campi di concentramento. Finita la guerra non c’era nessuno che avesse voglia di conoscere la verità, di avvicinarsi anche solo con l’ascolto all’indicibile di chi aveva vissuto sulla sua pelle l’esperienza dello sterminio.
“Guarda, lo so che tu e la tua generazione ritenete molto utile che si parli di tutto, ma per noi non era così. Abbiamo imparato a dimenticare. Lo dicevano tutti, allora: dimentica e guarda avanti! Non stare a rimuginare sul passato…”
“E poi non c’era nessuno che fosse così interessato ad ascoltare quello che avevamo da raccontare. La gente non voleva sentire e basta.”
Miriam sente però che al termine della sua vita è giusto passare il testimone e restituire almeno il ricordo di chi non c’è più e quando la nipote Camilla le chiede di raccontare di sé è pronta a farlo.
“Non vuoi sapere. E nello stesso tempo vuoi sapere, è evidente. Questo ti spaventa. E io lo capisco. Ho avuto paura per tutta la vita”.
E per Camilla non è facile ascoltare e rendersi conto che quello che ha vissuto sua nonna è stata una realtà terribile: gli orrori che legge sui libri di storia, sua nonna li ha vissuti sulla sua pelle.
“Di colpo le si spalanca davanti un baratro facendole intuire, sentire, capire e comprendere che tutto questo è successo per davvero, sul serio, nella realtà. Il nazismo. Auschwitz. Ravensbrück. Sua nonna ha addirittura conosciuto il dottor Mengele, quello a cui Camilla ha sempre pensato come una specie di personaggio delle fiabe, un morto vivente di un racconto dell’orrore, un mostro in uniforme nera che girava per Auschwitz mettendo a morte altri al posto suo. Invece è esistito. Sua nonna l’ha visto di persona, ha sentito la sua voce.”
Alternando ricordi al momento presente, il lettore viene immerso nell’abominio dei campi di sterminio, capisce come fosse la casualità a decidere della vita e della morte di chi vi era internato; quel forza forza fisica e mentale fosse necessaria per sopravvivere e soprattutto intuisce le infinite difficoltà che accolsero chi da quell’orrore ne uscì vivo, spesso solo al mondo, senza più una famiglia da cui tornare, piagato nel corpo e nello spirito, senza nessuno che volesse ascoltare e credere a quei racconti.
Majgull Axelsson, pur scrivendo un romanzo, racconta una storia quanto mai verosimile, e mette in luce la storia poco conosciuta della persecuzione degli zingari, rom e sinti, che, in quanto ritenuti individui “asociali” o “criminali abituali” vennero assoggettati alle Leggi Razziali ed inseriti nelle leggi di Norimberga, cioè le Leggi per la Prevenzione della Trasmissione di Malattie Ereditarie e contro i Criminali Abituali e Pericolosi. E, mediante uno stile asciutto, fa scoprire al lettore il trattamento riservato agli zingari anche dopo la guerra, anche nella civilissima e rispettabilissima Svezia.
Un romanzo sull’identità negata, sulla difficoltà di ricominciare a vivere dopo aver attraversato l’inferno, sull’indifferenza e spesso incredulità di chi ascoltava le storie dei sopravvissuti e soprattutto sull’importanza della memoria.
Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson – Iperborea (2016) – pag. 562