Un romanzo autobiografico

Hélène è solo una bimba dai riccioli scuri che assiste dapprima incuriosita, poi sempre più sbigottita al teatrino della propria famiglia. Una madre bellissima, viziata ed annoiata che spende e spande e riempe le ore di vuoto dedicandosi alla seduzione. Un padre innamoratissimo della moglie, ma anche incline pericolosamente al rischio: che siano investimenti, borsa o gioco, quello che conta è l’adrenalina che ne ricava. Due nonni che portano in dote solo un cognome importante, ma che hanno dissipato tre patrimoni. In mezzo la Russia, da cui la famiglia fuggirà in Finlandia dopo la rivoluzione d’ottobre e Parigi, la città agognata piena di vita, di cose belle e di possibilità.

L’unica persona che si preoccupa per lei, le rimbocca le coperte, le racconta della sua giovinezza è Mademoiselle Rose, la sua bambinaia francese e proprio per vendicarsi dell’ingiusto licenziamento, che oltretutto causerà la morte per assideramento della donna, Hélène inizierà a covare un odio atroce e senza via di uscita per la madre fatua ed egoista, che non ha nessuna remora né scrupolo a flirtare con un giovane cugino che ha la metà dei suoi anni davanti agli occhi della figlia.

“Il vino della solitudine” è il più autobiografico e il più personale dei romanzi di Irene Némirovsky: la quale, pochi giorni prima di essere arrestata, stilando l’elenco delle sue opere sul retro del quaderno di “Suite francese”, accanto a questo titolo scriveva: “Di Irene Némirovsky per Irene Némirovsky”.

Non è infatti difficile riconoscere nella piccola Hélène, adulta e matura, la stessa Irene; e nella bella donna annoiata che trascura una figlia poco amata, quella Fanny Némirovsky che ha fatto dell’infanzia di Irene un deserto senza amore. Anche lei come Hélène ha dovuto assistere al disfacimento di una famiglia e subire sulla pelle l’indifferenza della madre troppo presa da se stessa, egoista, terrorizzata dall’invecchiare e dall’aver sprecato la sua vita; e al contempo notare la trascuratezza di un padre amatissimo, ma cieco di fronte ai tradimenti della moglie e al dolore della figlia. Irene ritrae nella famiglia Karol la propria e presta i suoi ricordi e soprattutto la sua amarezza nei confronti della sua infanzia alla piccola Hélène. Una ragazzina, come lei, divenuta adulta troppo in fretta, che non ha potuto avere un’infanzia e una giovinezza spensierata, ma ha iniziato presto ad osservare e riflettere sulla natura crudele dell’amore, arrivando ad aborrire i giochi amorosi e i tradimenti tra amanti. Una ragazzina che beve la solitudine come un vino che le dà l’oblio e si rifugia nei libri, nel silenzio delle lunghe giornate solitarie, in compagnia dei suoi pensieri. In questo romanzo l’autrice rappresenta perfettamente l’auto-distruttività dei rapporti umani, il dolore sordo che si trasforma in una sottile e crudele voglia di vendetta, una vendetta che sa aspettare e attendere il momento opportuno per colpire senza pietà.

Il parallelismo tra la storia di Hélène e la vera vita di Irene appare ancora più evidente leggendo Mirandor, la biografia scritta dalla figlia Elisabeth Gille.

Un omaggio ad una madre appena conosciuta, visto che Elisabeth ha solo cinque anni quando la madre viene arrestata e deportata ad Auschwitz, dove muore di tifo il 17 agosto 1942. Un libro ricco di aneddoti, riflessioni ed elementi che fanno apprezzare e comprendere ancora di più i temi dei suoi libri. Irene era nata a Kiev, che amava tantissimo, spostatasi poi con la famiglia a San Pietroburgo aveva assistito dalle finestre all’inizio della rivoluzione e al crollo del mondo ovattato e scintillante della nobiltà russa. Da lì era riuscita a fuggire con la famiglia in Finlandia e attraverso la Svezia era giunta a Parigi, luogo di elezione per tantissimi russi. Qui sente di aver scelto la sicurezza, la pace. E’ assolutamente certa che la Francia fosse il paese della moderazione e della libertà, che l’aveva adottata come lei l’adottava. Per questo rimane ancora più sconvolta quando, prima ancora dello scoppio della seconda guerra mondiale, anche a causa dell’enorme quantità di profughi dalla Germania e dall’est Europa, la Francia vara una legislazione che classifica gli ebrei come cittadini di serie B, e questo senza considerare che gli ebrei si erano sempre sentiti prima cittadini francesi e poi ebrei e che tantissimi non avevano più alcun collegamento con la loro religione d’origine. Per Irene è un colpo durissimo, reso ancora più duro quando lei, che era stata pochi anni prima osannata come autrice, si trova con tante porte chiuse in faccia a vivere una sorta di esilio lontana da Parigi e dalla sua vita precedente che si conclude, tragicamente, con la deportazione e la morte nel campo di sterminio.

Il vino della solitudine di Irene Nemirovsky – Adelphi (2011) – pag. 245

Mirandor. Irene Nemirovsky, mia madre di Elisabeth Gille – Fazi editore (2011) – pag. 359

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