Sabrina è figlia di Gladys, nigeriana arrivata in Italia con l’inganno e costretta a prostituirsi per ripagare il proprio debito a Joy, una “madame” che si rivela presto la sua aguzzina, capace di stringerla in un malevolo ricatto.
Gladys il cui vero nome è Esosa, è una ragazza con una famiglia solida alle spalle, tanti fratelli, un padre, una madre e una vita misera ma dignitosa a Lagos. Il suo trasferimento in Italia è derivato dalla voglia di un futuro diverso, di avere maggiori opportunità, invece si è ritrovata a vendere il suo corpo per la strada, stretta tra le continue minacce a se stessa e alla famiglia rimasta in Nigeria con cui Joy la tiene in pugno.
La sua vita si incrocia con quella di Maria e Nando, una coppia con tre figli che si è trasferita da Napoli a Castel Volturno, che hanno la casa proprio davanti a quella di Joy. I due la prendono in simpatia e quando lei rimane incinta sarà a loro a cui chiederà di occuparsi della piccola.
Per Sabrina inizierà una vita divisa a metà tra la madre biologica che soprattutto nei primi anni vede e non vede, e Antonietta, la sorella di Nando che deciderà di accudire ed occuparsi di quel piccolo fagottino.
Quando Gladys per sfuggire a quella vita di miserie si trasferirà a Prato, Sabrina passerà i periodi scolastici a Napoli e le vacanze tra Prato e Firenze, cercando di capire quella madre che vuole inserirla nella comunità di appartenenza, uguale esteriormente a sé, ma molto diversa nella lingua (Sabrina parla solo italiano non conosce il pidgin, una sorta di lingua franca con base lessicale inglese che conosce gran parte della popolazione dell’Africa occidentale), negli usi, in quello che ha imparato fino ad allora dalla su mamma bianca. Oltretutto Gladys cerca di imporle la sua impronta in cui Sabrina non si non riconosce. Per la madre è difficile trasmettere alla figlia quel patrimonio di conoscenze, di esperienze, di tradizioni che di solito rappresentano una sorta di “imprinting” necessario. Per Gladys Sabrina è un corpo estraneo e questa diffidenza si trasformerà per la figlia in rifiuto, in distacco necessario seppure sofferto.
Un senso di differenza e di estraneità acuita ancora di più durante i viaggi in Nigeria a conoscere i nonni e i parenti vari, dove le differenze culturali, linguistiche, di cibi, di sapori, si faranno ancora più evidenti.
E’ l’inizio di una vita a metà, come quella di tanti altri bambini divisi tra la famiglia ”d’adozione”che sembra quasi voler cancellare l’essenza africana, che vuole in qualche modo normalizzare e non vedere problemi anche quando ci sono, e quella ”naturale” che però appare distante e difficile da “afferrare”.
Il disagio che nasce quando ci si sente sempre a metà: troppo italiana con la sua famiglia del Laos e troppo africana in Italia.
“In Nigeria vedevano quanto non fossi nigeriana da ciò che avevo dentro, in Italia pensavano che non ero italiana per ciò che ero fuori.”
Crescere significa per tutti trovare la propria identità e la propria strada, affermando se stessi anche in contrapposizione con la propria famiglia, ma questo è ancora più complicato e complesso quando quell’identità “naturale” si scontra con la difficoltà ad individuare se stessi perché manca una visione chiara e definita. E spesso in questo processo doloroso anche l’amore non è sufficiente perché per essere accolti completamente bisogna accettare tutto e vedere questo tutto come parte dell’essere amato.
La storia di Sabrina è il frutto di incontri, abbandoni, narrazioni non convenzionali, assenze misteriose, abbracci dolorosi, lacrime strappate al silenzio. Una storia amara e molto più frequente di quanto non si pensi.
Sabrina Efionayi sceglie di narrare in terza persona, mettendo uno spazio tra sé, i suoi sentimenti e il racconto della sua vita e forse è proprio questo a rendere la narrazione fredda, distaccata. La necessità di raccontare, ma mettendo comunque una sorta di schermo, di filtro a ciò che racconta rende il libro un documento prezioso, una testimonianza importante, ma gli toglie un po’ di pathos, lo rende poco coinvolgente.
Questa storia avrei voluto scriverla dicendo: io. Perché è la mia. A mano a mano che ci entravo, però, mi sono resa conto di non riuscirci, troppo difficile, troppo doloroso. Avevo bisogno di prendere le distanze, di guardarmi dall’esterno, come se quella che stavo raccontando non fosse la vita mia, ma di qualcun altro.
Se, infatti, ho trovato la storia estremamente interessante anche perché apre infinite domande sulla difficoltà di integrazione e sul senso di estraneità che chi cresce lontano dal proprio paese d’origine può incontrare, purtroppo a livello emotivo mi ha trasmesso davvero poco. Forse proprio l’esigenza, dichiarata fin dall’inizio, di prendere le distanze da una storia troppo dolorosa, ha neutralizzato la potenza del contenuto, dandomi la sensazione di leggere un reportage più che una vicenda che ha causato e causa tanta sofferenza.
Addio, a domani di Sabrina Efionayi – Einaudi Stile Libero Extra (2022) – pag. 178