La Regina pervicace

Pensando a Caterina d’Aragona, legittima consorte di Enrico VIII per più di vent’anni, mi viene in mente un aggettivo: pervicace. In realtà la rappresenta perfettamente anche un altro termine: regale. Una donna, figlia di re, allevata e preparata per essere regina, che seppe mantenere la propria regalità e la propria natura anche quando la vita la travolse.

Caterina, figlia di di Isabella di Castiglia e di Ferdinando II d’Aragona, giunse in Inghilterra nel 1501 all’età di sedici anni, quale promessa sposa di Arturo, figlio di Enrico VII e di Elisabetta di York. Per lei abituata al profumo dei fiori di arancio e ai colori accesi e vividi della Spagna, ritrovarsi nella nebbiosa e grigia Inghilterra dovette essere un trauma, accresciuto poi dal breve e probabilmente non consumato matrimonio con il malaticcio e debole consorte, che dopo solo cinque mesi dal matrimonio morì.

Doveva tornare in patria oppure rimanere sul suolo inglese? A complicare le cose la questione della dote, versata per metà, che Enrico VII non intendeva restituire e anzi voleva completa e la Spagna rivoleva indietro.

Per Lei iniziano sette anni di tribolazioni e di grandi incertezze, il suo calvario: come vedova di Arturo, Caterina ha diritto a un terzo dei beni del defunto sposo. Oltre a ciò re Ferdinando esige che la figlia torni in Spagna, e con lei la parte di dote già versata. Il sovrano inglese si oppone rabbioso: nessuno metterà le mani sui possedimenti inglesi, nessuna dote sarà rimborsata.
Inizia così un’avvilente diatriba su piatti, posate, brocche, boccali in oro e argento portati con sé come dote dalla principessa spagnola. Nel tempo Enrico VII dichiarerà di non poterla più mantenere a corte con tutto il suo seguito, e la farà trasferire a Durham House, la piccola residenza londinese che dividerà con il vescovo di Ely. Catherine dovrà rimandare in Spagna parte dei suoi servitori. Da ultimo le ridurrà l’appannaggio fino a negarglielo del tutto, e lei farà debiti e impegnerà i propri gioielli per sfamare sé e i suoi. Una sorta di prigioniera, ostaggio della politica del padre e del suocero. Anche perché, con l’ascesa degli Asburgo Caterina non è più il partito allettante del passato e l’idea di darla in sposa ad Enrico non alletta più di tanto il monarca inglese che vorrebbe per il figlio una moglie di stirpe più potente. Inoltre si poneva il problema della dispensa papale, dal momento che il diritto canonico impediva a un uomo di sposare la moglie del fratello. Caterina testimoniò che il proprio matrimonio con Arturo non era mai stato consumato, dal momento che, sempre secondo il diritto canonico, un matrimonio non era valido finché non fosse stato consumato. Elemento, successivamente, cruciale per la sua sorte.

Tuttavia, improvvisamente, il destino cambia: il 21 aprile 1509 Enrico VII muore. Enrico VIII è re, le chiede di diventare sua sposa, lei accetta.

Caterina dimostrò comunque la preparazione e il carattere che aveva quando, prima donna nella storia d’Europa, assunse l’incarico di ambasciatore spagnolo in Inghilterra e lo riconfermò, quando, ormai sposata con Enrico VIII e regina d’Inghilterra assunse il ruolo di reggente mentre il marito era in Francia, guidando l’esercito nella battaglia di Flodden Field.

Il matrimonio con Enrico che durò una ventina d’anni e conobbe, per quello che si può sapere, anche momenti di gioia, fu funestato dalle tante gravidanze interrotte, figli nati morti o sopravvissuti per pochi giorni. L’unica che sopravvisse e crebbe fu Maria, futura regina d’ Inghilterra conosciuta come Bloody Mary per la furia con cui tentò di ripristinare la religione cattolica in Inghilterra e perseguitò gli oppositori politici.

Enrico però aveva bisogno di un figlio maschio, era l’unico modo per far sopravvivere la casata Tudor e avere un erede che gli succedesse al trono. E fece di tutto per riuscire a perseguire tale scopo.

Nel libro di Alison Weir emerge proprio la solenne figura di Caterina. Una donna che, nonostante i colpi della sorte seppe sempre mantenere l’alta concezione che aveva di sé, che unita ad una profonda religiosità e d un animo nobile e e profondamente buono la resero amatissima dal popolo inglese.

Un romanzo che nel ricostruire in modo accurato la vita della regina sceglie un ritmo lento, a volte anche un po’ noioso, necessario però, per capire quanto debba essere stato terribile per lei l’attesa nei sette anni prima di sposare Enrico e negli ultimi anni quando viene via via relegata ed estromessa dalla corte, in attesa della decisione di Papa Clemente VII.

Esiliata in castelli sempre più remoti e insalubri, privata di tutto, persino della compagnia della figlia Maria, non si piegò mai all’odio, alla vendetta, all’acredine.

Morì il 7 gennaio 1536 Catherine nel desolato castello di Kimbolton: quando l’imbalsamatore le apre il cuore lo trova nero e pieno di sangue raggrumato. Si sussurra per il veleno, oppure quel cuore si è spezzato per il dolore.

Nonostante la storia la dipinga come una donna patetica ed arroccata alle proprie posizioni al punto da essere umiliata e esiliata dal suo stesso marito, quando entrò in gioco la passione per Anna Bolena, Caterina rimase fondamentalmente se stessa: consapevole del proprio ruolo, fortemente religiosa e convinta della validità del proprio matrimonio con Enrico e custode anche degli interessi della figlia Maria.

Simbolo di regalità non cercò la vendetta, rimase convinta, fino in fondo, nonostante la solitudine e l’ostracismo che subì di essere moglie legittima e regina.

Caterina D’Aragona di Alison Weir – SuperBeat (2019) – traduzione di Chiara Brovelli – pag. 654

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