Fare la differenza

Ignoravo cosa avrei fatto del mio avvenire, però sapevo che sarebbe stato legato alle vite dei poveri, alla storia delle ineguaglianze razziali in America e alla lotta per l’equità e la giustizia reciproche”.

Sulla base di queste idee Brian Stevenson, autore del libro, racconta la sua personale esperienza di giovane legale alle prese con un sistema iniquo in cui “presunzione di colpevolezza, povertà, pregiudizi razziali e tutta una serie di dinamiche sociali, strutturali e politiche hanno dato vita ad un sistema costellato di errori, un sistema in cui oggi migliaia di innocenti soffrono in prigione”.

Brian Stevenson è un idealista, ma anche un uomo che sa perfettamente che cosa significa essere neri negli stati Uniti d’America, infatti è nato nel Sud del paese ed è cresciuto ascoltando le storie di sua nonna.

Sua nonna era figlia di gente che aveva vissuto in schiavitù in Virginia. Suo padre le aveva raccontato dell’esperienza di crescere come uno schiavo e di come avesse imparato a leggere e scrivere, tenendolo però nascosto. Finché non ci fu l’Emancipazione, aveva tenuto segreto tutto ciò che sapeva. L’eredità della schiavitù segno profondamente mia nonna e il modo di crescere i nove figli che aveva avuto. Mi ripeteva continuamente “Resta vicino”.

Per questo è determinato a fare la differenza, differenza che significa dare una possibilità ai tanti, troppi detenuti, soprattutto nel braccio della morte, che non dispongono di alcun tipo di rappresentanza legale. Condannati spesso dopo un processo farsa, da una giuria bianca, privati dei più elementari diritti civili, senza nessuna voce. A 23 anni, studente di legge di Harvard, si trova a fare la sua prima visita ad un condannato a morte, pur essendo senza esperienza e non conoscendo nulla di chi va a trovare, la sua visita vuole solo essere una sorta di mano tesa, per far capire alla persona imprigionata che c’è ancora qualcuno al di là delle sbarre che è interessato a lui.

Attraverso il racconto di alcuni dei casi che si è trovato a patrocinare ci permette di lanciare uno sguardo su un sistema profondamente corrotto e iniquo. Non si può evitare di pensare che quella che si autodefinisce la maggiore democrazia al mondo abbia un sistema giudiziario e carcerario del genere. Un sistema dove chi è più povero, più indifeso, meno consapevole, ha infinite probabilità in più di essere incarcerato, processato e condannato. I neri, i bianchi poveri, le donne, i bambini (!!!), i disabili, i malati mentali sono i clienti dell’avvocato Stevenson. Un carico mentale e fisico pazzesco, soverchiante, come lo definisce lui stesso.

Seguivamo i clienti nel braccio della morte, presentavamo ricorso contro le pene eccessive, aiutavamo i disabili, assistevamo i bambini incarcerati nel sistema penitenziario degli adulti e cercavamo di denunciare i pregiudizi razziali, le discriminazioni verso i poveri e gli abusi di potere. Erano impegni soverchianti ma gratificanti.

Tra i vari casi spicca quello di Walter McMillian, detto Jhonny D, un uomo condannato per omicidio sulla base di prove costruite al tavolino, nonostante al momento dell’omicidio fosse ad una festa e non si fosse mai mosso di lì, visto da innumerevoli testimoni e senza alcun legame con la vittima, fu accusato, imprigionato e poi condannato sulla base di una testimonianza estorta dalla polizia. Capro espiatorio per un delitto irrisolto, scelto perché aveva avuto una relazione con una donna bianca. Il caso di McMillian è raccontato a capitoli alternati, e riesce a trasmettere tutta la difficoltà di ottenere il riesame, di far ritrattare il testimone, che minacciato dalla polizia, aveva rilasciato dichiarazioni incongrue ed assurde che però erano state alla base della condanna a morte dell’uomo. Stevenson si scontra con diritti negati, comportamenti illegali, corruzione, inganni che lo lasciano esterrefatto, ma sempre più motivato a lottare per dare giustizia ad un uomo innocente. E non lo fermeranno i soprusi, le minacce di morte e gli allarmi bomba.

«Vostro onore, è stato fin troppo facile condannare un uomo ingiustamente accusato di omicidio e mandarlo nel braccio della morte per qualcosa che non aveva commesso, mentre è stato davvero difficilissimo ottenere che venisse liberato dopo aver dimostrato la sua innocenza. In questo stato abbiamo problemi gravi da risolvere e un lavoro importante che dev’essere compiuto.»

Nei vari casi che racconta, sempre con estrema lucidità e profondità, emergono storie di violenza, degrado, abusi, traumi, miseria. In queste quattrocento pagine scorrono assenza di diritti umani, condizioni disumane di detenzione, pena di morte, abusi di potere, prevaricazione e soprusi nelle carceri, condanne definitive a minori trattati e processati al pari degli adulti, detenuti nelle stesse carceri destinate agli adulti, con tutte le violenze e le crudeltà che ne conseguono. Persone che avrebbero avuto bisogno di aiuto, di sostegno e invece sono stati incarcerati e dimenticati in situazioni disumane.

Ovviamente è centrale il tema diritti civili, delle differenze tra bianchi e neri, delle relazioni interrazziali, vietate e viste come un atto spregiudicato, del diverso trattamento da parte della polizia in ogni occasione. L’autore sottolinea come nella storia americana siano quattro le istituzioni che hanno dato forma al modo di affrontare la razza e la giustizia: la schiavitù; il terrorismo razziale, rappresentato dal linciaggio, nel periodo successivo all’abolizione della schiavitù; le leggi Jim Crow basate sulla segregazione razziale e sulla soppressione dei diritti fondamentali che hanno dato forma all’epoca dell’Apartheid; e in tempi più attuali l’incarcerazione di massa.

Stevenson, nel raccontare le storie dei suoi assistiti, non divide tra colpevoli ed innocenti, perché, come qualunque avvocato sa bene, in un sistema penale che funziona anche il colpevole ha diritto ad un equo processo, ha diritto che vengano raccolte prove a suo favore, che la sua condizione mentale, familiare, educativa, nonché età e fragilità, debbano comunque essere sottoposte all’attenzione di una corte.

Non manca un’analisi attenta sulla pena di morte: un sistema barbarico, oltretutto crudele nella realizzazione, le pagine più crude del libro sono il racconto delle immani difficoltà incontrate nell’eseguire alcune sentenze per mal funzionamento della sedia elettrica.

Leggere Il diritto di opporsi significa affrontare un viaggio nell’orrore, un orrore reso ancora più tragico dal fatto che tutto è reale, vero, nulla di quello che Stevenson racconta è inventato o esagerato. In queste pagine sono riportate note, link, tabelle, statistiche, sentenze da cui è possibile verificare l’autenticità e veridicità di ciò che racconta.

Ciò nonostante la narrazione è comunque appassionante, in più occasioni pare di leggere uno dei tanti legal-thriller, alla John Grisham, in cui il lettore resta col fiato in sospeso, non sapendo se il protagonista riuscirà a far valere l’innocenza del proprio assistito, se il condannato alla sedia elettrica avrà un rinvio, o otterrà un riesame del proprio caso.

Un libro che conferma, per chi frequenta le aule giudiziarie, come la giustizia sia un’utopia: indagini sono spesso condotte partendo da un’ipotesi e cercando elementi che la confermino, pregiudizi, squilibrio tra difesa e accusa. Inoltre, il discrimine rappresentato dalle possibilità economiche dell’imputato: chi ha i soldi ha la possibilità di avere avvocati migliori, tecnici, consulenti che possano dare una diversa posizione alla sua linea difensiva, mentre chi non li ha, può solo affidarsi ad un avvocato d’ufficio impossibilitato spesso ad avvalersi di tecnici qualificati, analisi costose, indagini supplementari.

Stevenson lascia trapelare tutta la sua amarezza, la stanchezza che lo opprime di fronte ad un sistema iniquo in cui i più poveri, emarginati, disagiati hanno minori possibilità di ottenere un processo equo e maggiori possibilità di essere condannati ed incarcerati. Eppure è anche consapevole di come il suo impegno possa fare la differenza, di come la lotta della sua associazione e del progetto Equal Justice Initiative possa rappresentare l’unica speranza per tanti condannati.

Bryan Stevenson è un esempio di coraggio, umanità, determinazione, speranza, come racconta in modo preciso lo stesso autore, riportando un colloquio con Rosa Parks:

«Sì, signora. Ebbene, seguo un progetto in ambito legale chiamato Equal Justice Initiative, e il nostro intento è aiutare le persone nel braccio della morte, in realtà stiamo cercando di fermare la pena di morte. Cerchiamo di fare qualcosa per le condizioni dei carcerati e per le pene eccessive. Vogliamo liberare le persone che sono state condannate ingiustamente. Vogliamo mettere fine alle sentenze inique nelle cause penali e far cessare i pregiudizi razziali nella giustizia penale. Stiamo provando ad aiutare i poveri e fare qualcosa nella difesa degli indigenti, e per il fatto che la gente non riceve l’assistenza legale di cui ha bisogno. Cerchiamo di dare aiuto chi soffre d’infermità mentale. Stiamo provando a far sì che smettano di mandare i ragazzini nelle prigioni e nei carceri destinati agli adulti. Stiamo cercando di fare qualcosa per la povertà e la mancanza di speranza che regnano nelle comunità poveri. Vogliamo vedere più diversità insieme alle cariche decisionali all’interno del Sistema di Giustizia. Proviamo ad insegnare alla gente la storia razziale e il bisogno di giustizia razziale. Stiamo cercando di combattere gli abusi di potere della polizia e dei pubblici ministeri…».

Un romanzo necessario, duro, emotivamente faticoso, ma necessario, per acquisire consapevolezza, per capire come funziona il sistema “giustizia”, per affrontare ancora una volta il tema del razzismo e diventare un po’ più consapevoli e attenti. Perché come dice la Signora Williams, prima di assistere ad un processo.

«Potrò anche essere vecchia, potrò anche essere povera, potrò anche essere nera, ma io sono qui. Io sono qui perché ho questa visione della giustizia che mi impone di essere una testimone. Io sono qui perché ho il dovere di essere qui. Io sono qui perché non mi potete tenere lontana.»

E così dobbiamo fare noi: esserci, testimoniare, denunciare ogni forma di ingiustizia.

Il diritto di opporsi di Bryan Stevenson – Fazi editore (2020) – traduzione di Michele Zurlo – pag. 446

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