Quando si parla di razzismo in Italia la prima reazione è sempre la solita. Il razzismo in Italia non esiste, non ci riguarda, il nostro è un paese tollerante ed aperto. Il razzismo è un fenomeno che riguarda gli Stati Uniti non noi. E subito dopo, in una sorta di corollario, gli occhi si abbassano e la voce incalza: “ma infondo cosa si pretende”, “siamo invasi”, “non c’è lavoro per noi”, “ogni giorno sbarcano sul nostro territorio navi dall’Africa”, “hanno tali pretese”…
Poi leggi le dichiarazioni di Paola Egonu, ascolti tuo figlio di 13 anni, che ti racconta sconvolto di un suo amico, nato qui e sempre vissuto qui, a cui i compagni di classe chiedono quando tornerà a casa sua, riferendosi all’Africa, e ti dici che tutto questo non è normale. Questa non è integrazione. E’ razzismo. Un razzismo strisciante e per certi versi peggiore, perché subdolo, quasi inconsapevole. E è arrivato il momento di dirlo ad alta voce: siamo un paese razzista, basta con la famosa litania “italiani brava gente”. Accettare di esserlo, esserne consapevoli, apre il discorso e induce a riflettere. E’ poco, ma è già un primo passo.
“Anche se sono nata in Italia, ho la cittadinanza di un paese in cui non sono mai stata, che non ho mai visto se non in fotografia. I figli di immigrati, che come me, sono nati sul territorio italiano non ottengono la cittadinanza in automatico, perché secondo la legge noi figli di genitori stranieri dobbiamo mantenere la cittadinanza dei nostri genitori. In Italia la cittadinanza italiana si acquista per discendenza, per sangue.”
E, già che ci siamo, facciamocela qualche domanda, a partire proprio dal passo che ho riportato. E’ giusto che ci sia una legge che impedisce ad un bambino nato in Italia, che ha frequentato l’intero percorso scolastico in Italia, che parla italiano, che non conosce altro paese se non questo, di non essere cittadino italiano se non dopo aver compiuto 18 anni, dopo una esaurente trafila burocratica e con una finestra di solo un anno per richiederla?
E l’indifferenza che condisce tutto questo, il silenzio che lo circonda non è più tollerabile.
Per capire meglio a cosa mi riferisco basta leggere l’autobiografia di Anna Maria Gehnyei, in arte Karima 2G. Anna nasce a Roma da genitori liberiani. Suo padre è stato il primo uomo Kpelle a cui i capi del villaggio hanno permesso di allontanarsi, il primo Kpelle ad arrivare in Europa. Un uomo che in Italia ha sempre lavorato, si è sposato, ha avuto figli. Figli che in Italia sono nati, che qui hanno frequentato le scuole, imparato il dialetto, e che per tanti anni hanno conosciuto solo un paese: il nostro.
Ne Il corpo nero Anna apre la porta ai suoi ricordi: la compagnia costante della gemella, tanto diversa caratterialmente da lei, la presenza del padre, verso cui ha una vera e propria venerazione. Un uomo che ama la musica, con la pelle piena di cicatrici, per i riti di iniziazione in Africa, di cui però preferisce non parlare. Anna rievoca la sua infanzia fatta delle storie che le racconta la madre sulla sua terra d’origine, magica ed affascinante. Le sedute interminabili, di domenica mattina, per “domare” i capelli, i ferri caldi e le creme necessari per acconciarli, le treccine odiate e allo stesso tempo oggetto di fierezza ed orgoglio per i tanti modi in cui è possibile sfoggiarle. La casa sempre piena di gente, amici e parenti, provenienti da tanti luoghi dell’Africa, che trovano calore, accoglienza e gioia tra le pareti di casa loro. E poi la musica, il cibo e la danza.
In queste pagine scorrono ricordi felici che trasmettono gioia in chi legge, ma anche la rabbia di sentirsi sempre additati e diversi. Anna, nonostante frequenti la scuola in Italia, non sia mai andata in Africa, parli l’italiano e il romano, è sempre guardata con sospetto. E’ straniera, non c’è posto per lei e la sorella nei giochi dei compagni di classe durante l’intervallo a scuola. La professoressa di matematica, fiera di chiamarsi Edda come la figlia di Mussolini, esordisce dichiarando: “E se c’è qualcosa che proprio non sopporto sono gli immigrati che si credono italiani”. Per poi rincarare: “Si sa che gli immigrati non sanno fare nulla. Ed è logico quindi che anche i figli degli immigrati non sappiano fare nulla.”
Crescendo sono i controlli frequenti della polizia e il rito, umiliante e ripetitivo davanti alla questura, per il rinnovo del permesso di soggiorno, a ricordarle costantemente di essere diversa, di non essere italiana. Quell’essere a metà, sempre sospesa tra le sue origini, la Liberia il paese in cui intraprende un avventuroso ed indimenticabile viaggio con il fidanzato bianco, biondo e dagli occhi chiari, che per una volta è al centro dell’attenzione perché diverso, e l’Italia il paese in cui è nata e vissuta ma che non la considera cittadina italiana. E quell’essere spezzata a metà, continuamente in bilico tra due realtà culturali, tra due lingue, due modi di essere, corpo estraneo in entrambe, rappresenta una ferita aperta.
“Per un po’ ho continuato a trovare insopportabile il fatto di non essere italiana anche in via ufficiale, sentivo di non poter andare più in giro bollata solo da un codice, in attesa di avere un permesso di soggiorno o la cittadinanza. Per anni sono stata un numero di pratica, ma quel numero non ero io anche se non potevo fare altro che identificarmici. Ma poi mi sono lasciata spingere dall’energia, mi sono fatta forza, superando ogni ostacolo burocratico, la cittadinanza è arrivata, e anche questo tassello, piano piano, è andato al suo posto.”
Nel libro di Anna però, non troverete commiserazione, ma un’infinita energia, la voglia di cambiare le cose, di essere accettata per quello che è, per quello che fa, a prescindere dal colore della pelle. Una giovane donna fiera di se stessa, del suo corpo nero e decisa ad apprezzare il bello di appartenere a due paesi.
Il corpo nero di Anna Maria Gehnyei – Fandango Libri (2023) – pag. 172