Spesso crediamo o ci illudiamo che il segregazionismo e la divisione tra bianchi e neri sia un problema superato negli Stati Uniti del 2022. Ci illudiamo che episodi come la morte di George Floyd siano solo sciagurati casi isolati, che il movimento Black Lives Matter (‘Le vite dei neri contano’), sia un’esagerazione. Ma non è così. Così come è un’illusione pensare che il razzismo non esista.
Per questo ho trovato estremamente interessante leggere Ruby Bridges è entrata scuola di Elisa Puricelli Guerra, che raccontando la storia di Billie una ragazzina della New Orleans di oggi lancia come un ponte ideale tra la sua storia e quella della piccola Ruby Bridegs, prima bambina afroamericana a frequentare nel 1960 una scuola fino ad allora riservata soltanto ai bianchi.
Billie, che per la sua insegnate delle medie diventerà il futuro Premio Nobel della Letteratura, è stata iscritta alla Central Saint Charles Junior, una scuola integrata dove studenti bianchi e di colore possono trovare programmi stimolanti ed interessanti per garantire loro un futuro migliore, ma sente di essere un corpo estraneo per la scuola.
L’integrazione sbandierata e i programmi fatti per unire coetanei provenienti da quartieri ed esperienze diverse, sono tali solo sulla carta e quello che è successo alla sua amica Trina ne è l’ennesimo esempio. Dell’incendio scoppiato nel laboratorio di moda è, infatti, stata accusata immediatamente lei e questo solo perché è nera, senza genitori, passata da una famiglia affidataria all’altra, con un passato tribolato e tanti problemi. La rabbia per quell’ennesima ingiustizia la porta a prendere a pugni Eric, un suo compagno bianco. L’episodio che può portare dritto all’espulsione diventerà invece, grazie all’insegnante di lettere, una ricerca fatta in collaborazione tra i due per scoprire la storia di Ruby Bridges.
Per Billie non è facile fidarsi né superare la linea del colore che come un muro altissimo separa bianchi e neri e quindi lei da Eric. Giorno dopo giorno però, la storia della piccola Ruby, la sua battaglia nell’America segregazionista, porterà i due adolescenti a conoscersi, a confrontarsi, a scoprirsi più simili di quanto pensavano e soprattutto ad unire le forze per dimostrare l’innocenza della loro compagna, ingiustamente accusata.
– Tu, Hudson, i bianchi… voi non avete la minima idea di cosa voglia dire essere nero! – esplodo. – Hai presente il bel discorsetto del prof sul mettersi nei panni degli altri? Be’, mi sa che non l’hai ascoltato bene. Prova a immaginare di essere costantemente sospettato, osservato, messo in dubbio, accusato. Oggetto di diffidenza, ritenuto quasi sempre colpevole e perfino temuto. È una cosa che fa p-a-u-r-a, Hudson. Un fardello che tu non saresti in grado di sopportare. –
In questo libriccino di poco più di centocinquanta pagine, oltre alla vita di Ruby e alla sua storia di piccola eroina, con il compito di fare la rivoluzione e permettere ad altri bambini come lei di avere finalmente un’istruzione degna di questo nome, emerge la rabbia di Billie. Una ragazzina stufa di sentirsi diversa, di essere giudicata solo per il colore della pelle, di dover lottare per ogni singola cosa. A quindici anni sa già cosa significhi vivere guardandosi alle spalle, comportarsi bene, rispettare le regole, eppure essere sempre guardata con sospetto. La storia della piccola Ruby la porta indietro nel tempo e le mostra come poco o nulla sia cambiato negli ultimi sessanta anni, come l’integrazione sia un cammino costantemente in salita. Approfondendo la vita di Ruby, Billie capisce che è necessario fare la propria parte, che non si può rimanere a guardare. Il fatto di non aver fatto nulla per Trina, di non ha reagito con sdegno al suo arresto, di non aver cercato prove che dimostrino la sua innocenza, la rendono colpevole come il sistema che l’ha accusata e le fanno sentire terribilmente in colpa. Perché si è arresa. Senza nemmeno combattere.
Con uno stile semplice, ma d’impatto, fondendo passato e presente e mostrando la fragilità di un’integrazione più di facciata che di fatto, l’autrice permette di conoscere una pagina dolorosa della storia americana e far comprendere come tanto c’è ancora da fare per arrivare ad una società in cui bianchi e neri hanno davvero gli stessi diritti e sono davvero uguali di fronte alla legge.
Tra il 1876 e il 1965, dopo l’abolizione della schiavitù, furono emanate una serie di norme chiamate «Jim Crow», basate sul principio «separati ma uguali». Tali leggi costruirono un rigido sistema di separazione, che tendeva a tenere nettamente separate le persone di colore. Bianchi e neri non potevano frequentare gli stessi alberghi, chiese, parchi, ristoranti, mezzi di trasporto, uffici, posti di lavoro, scuole ma anche bagni e fontanelle dell’acqua e neppure farsi curare negli stessi ospedali. Il discrimine introdotto dalla Corte Suprema prevedeva, però, che il livello di questi servizi fosse uguale per entrambi. Peccato che così non fosse.
Non riesco a immaginare di non poter andare in piscina o al parco, perché per i neri non ce ne sono in città. Di correre alle ricerca disperata di un bagno puzzolente per gente di colore, e poi rassegnarmi a fare la pipì dietro a una pianta. O di bere da una fontanella pubblica separata. O di dovermi sedere in fondo al tram rosso che percorre Canal Street, lontana dai bianchi che stanno davanti. O in una galleria soffocante al cinema, lontanissima dallo schermo. O di dover mangiare in piedi, nel retro di un ristorante dove non sono ammessa, in un piatto di carta perché un bianco non corra il rischio di mangiare nello stesso piatto. La New Orleans di Ruby è una selva di cartelli che vieta alla gente di colore quasi tutto.
Un sistema che intorno agli anni cinquanta inizia a vacillare. Nel 1954 una sentenza della Corte Suprema afferma che la segregazione nelle scuole è illegale. Svantaggia i bambini di colore perché le scuole separate sono «sostanzialmente ineguali». E quindi i singoli stati dovranno porre fine a ogni discriminazione nel campo dell’istruzione creando scuole non segregate, dove a tutti gli studenti saranno offerte le stesse possibilità, indipendentemente dal colore della pelle. Passano altri anni senza che succeda praticamente nulla di rilevante, finché nel 1960 il giudice J. Skelly Right decide: l’integrazione a New Orleans si farà cominciando dalla prima elementare. Iniziano le proteste, basate sulla minore preparazione dei bambini neri rispetto ai coetanei bianchi. Per questo viene deciso un esame di ammissione così difficile che, nelle intenzioni di chi lo ha ideato, nessuno dei bambini di colore riuscirà a superarlo. Però, Ruby Bridges l’esame lo supera.
Nel Sud segregato le scuole per bambini di colore sono spesso delle baracche costituite da un’unica stanza riscaldata, se va bene da una stufa. Gli insegnanti, più che a vincere l’interesse degli studenti con lezioni stimolanti, li minacciano di batterli sul sedere con uno stivale se non stanno attenti. Niente a che vedere con le imponenti scuole di mattoni, con il riscaldamento centralizzato dove studiano i bianchi. I ragazzi di colore a scuola imparano a eseguire lavori materiali, mentre i loro coetanei bianchi imparano la lettura, il latino e il greco. Allan D. Candler, ex-governatore della Georgia: – Non credo nella necessità di educare questi negretti. Devono imparare un mestiere. Se gli insegniamo la letteratura saranno solo degli infelici, perché non riusciranno a capirla. L’istruzione è totalmente sprecata per loro -.
Con Ruby, altri sei bambini passano il test, ma i genitori non se la sentono a far affrontare ai figli quello che seguirà. Per questo solo Ruby varcherà il cancello della William Frantz Elementary School il 14 novembre del 1960, accompagnata da quattro agenti federali, che, per tutto l’anno scolastico, faranno scudo tra la piccola Ruby e una folla inferocita che vuole impedirle di frequentare la scuola. I genitori dei bambini bianchi ritirano i figli da scuola e nessun insegnate vuole fare lezione a Ruby. Solo Mrs Henry di Boston accetterà di insegnare a Ruby. Ruby non farà parte di una classe interrazziale, almeno per quell’anno. Rivoluzionerà la storia ma a prezzo di tanta solitudine e tanto dolore.
Quelle persone non sono lì a festeggiarla, ce l’hanno con lei, ma perché? Non ha fatto niente di male. Non le conosce neppure le donne che le gridano di tornare a casa, lei sta solo andando a scuola, una cosa normalissima. Ma per un motivo che ancora non capisce, loro non vogliono che frequenti quella scuola speciale. Cos’è successo tutta a un tratto? La protegge l’innocenza dell’infanzia. La vergogna di essere nera Ruby non ce l’ha. Non sa ancora nulla del razzismo perché i bambini di colore non nascono aspettandosi la segregazione, pronti a seguire le sue regole.
E’ solo grazie al calore della maestra, l’appoggio dei genitori e della comunità nera che fa scudo alla bambina e dà concreto aiuto, anche economico, alla famiglia, se Ruby sarà la prima a frequentare una scuola non segregata, dando inizio al cambiamento, ed entrando nella storia come Rosa Parks e tanti altri.
Ms. Henry comincia a leggerle il Mago di Oz. La protagonista, Dorothy, ha delle scarpe magiche color rubino, Ruby, il suo nome. Allora lei, ogni giorno, si immagina di superare l’assembramento di persone urlanti volando sulle scarpe color rubino che hanno il potere di renderla invincibile. Non potrà succederle niente, e dall’altra parte ritrova sempre Ms. Henry, che l’aspetta sempre con una nuova idea per rendere la giornata speciale.
Ruby Bridges è entrata a scuola di Elisa Puricelli Guerra – Einaudi ragazzi (2021) – pag. 158