La guerra delle farfalle è la storia di tre cugini accomunati oltre che dal legame di sangue dall’indifferenza dei genitori. Rupert, lasciato a casa dei nonni a tre anni dai genitori che si sono trasferiti in India, e Clarry e Peter, orfani di madre e con un padre che tollera a mala pena la loro presenza ed è totalmente disinteressato a loro, crescono contando praticamente solo su se stessi e sul legame che c’è fra di loro..
Nel grigiore della loro esistenza con un padre distaccato ed egoista, che non fa nulla per provvedere alle esigenze sia materiali che affettive dei figli, per i fratelli Clarissa ed Peter, le vacanze in Cornovaglia a casa dei nonni sono il paradiso.
A parte il mare, le scogliere, il cottage, i nonni, il viaggio in treno, la libertà di sperimentare e provare, è soprattutto la presenza affettuosa e coinvolgente di Rupert a dare quel sapore inconfondibile alle vacanze in Cornovaglia.
Quei mesi trascorsi nella casa dei nonni, le avventure, le risate, i tuffi dalla scogliera rendono a Clarry sopportabile l’indifferenza del padre, la casa fredda, la mancanza di riferimenti femminili. Per lei e Peter quel cugino cosi affascinante, pieno di vita, di ardore, intrepido e intraprendente, è un esempio e un faro a cui tendere.
“Per tutta l’estate diventavano i padroni della Cornovaglia, e la cosa più bella – più del suo mare turchese, dei gabbiani bianchi, e della brughiera striata d’oro e di porpora; più del giardino lussureggiante, del fuggi fuggi dei conigli la mattina presto, e delle loro impronte scure nella rugiada d’argento; più delle prelibatezze (le mele al forno, le uova così gialle, le focaccine allo zafferano e la crostata di lamponi); addirittura più di Lucy, il cavallino della nonna che tirava il calesse – era il fatto che in Cornovaglia c’era Rupert”.
Ma la guerra incombe e quelle vacanze rimarranno a lungo solo un’eco lontano, un ricordo a cui aggrapparsi per superare la lontananza, la mancanza di notizie, la paura di non vedere più chi si ama.
L’autrice riesce a tratteggiare perfettamente le personalità dei vari protagonisti: la sensibilità di Peter, l’unicità di Clarry, l’audacia incosciente di Rupert, ma anche la goffaggine di Simon, la fame di vita di Vanessa, facendo risaltare luci ed ombre di ognuno. E seguire la loro crescita, i loro cambiamenti, il modo in cui ognuno di loro si adatta alla guerra prima e ai mutamenti che questa ha comportato, poi.
Quello che rende davvero speciale questo libro è, però, che tra le righe di una storia di crescita e formazione, si sviluppano tanti altri temi, l’emancipazione femminile, favorita anche dalla guerra che richiamando gli uomini al fronte spinse le donne ad occupare posizioni lavorative vacanti; il ruolo dei genitori, e il peso che la loro presenza o le loro mancanze hanno sul destino dei figli; l’incoscienza giovanile che prende decisioni e compie azioni senza pensare minimamente alle conseguenze.
McKay è abile a rendere, con rapide pennellate, l’orrore della guerra, e della guerra di trincea: corpi ammassati in poco spazio, in mezzo al fango, in delle buche, con i topi, tra i colpi di mortaio, i proiettili, i cecchini e quella terra di nessuno tra i due eserciti, dove i soldati si inoltrano per recuperare i corpi dei compagni caduti.
E lo fa lasciando qua e là immagini di immensa poesia, come il ricordo dei papaveri – assurti poi a simbolo dei tanti morti della prima guerra mondiale – cresciuti nei campi, intrisi di sangue, dove quei tanti giovani, un’intera generazione, finì impantanata e si spense.
Un romanzo che ti cattura poco a poco ma che alla fine ti lascia con il sorriso sulle labbra e gli occhi lucidi, con la consapevolezza di aver scoperto una perla rara. Un libro per ragazzi che offre davvero tanto anche ad un pubblico più adulto.
Due piccole curiosità: nella mia ignoranza linguistica mi ha colpito che “shell”, in inglese, oltre che conchiglia significhi anche proiettile e stride come l’immagine delicata e bellissima di una conchiglia, corrisponda anche ad un oggetto di morte.
“Proiettili”: ecco un’altra parola sempre più in voga. “Proiettili” e “Fuoco d’artiglieria”. In inglese, il termine che indicava i proiettili, era lo stesso che indicava le conchiglie, e quando Clarry sentiva certe frasi, il pensiero ritornava sempre alle spirali, ai ventagli, ai fragili tesori che, un’estate dopo l’altra, aveva raccolto sulle spiagge della Cornovaglia. Rosa e bianche e gialle come narcisi. Perle blu indaco. “Una pioggia di proiettili”: Clarry sentì questa frase un giorno mentre, in fretta, tornava a casa da scuola. Aveva un suono affascinante”.
Il titolo inglese The Skylarks’ War, poi, si rifa ad uno dei passi più commoventi e tragicamente veri del libro:
“Spesso, in quel periodo dell’anno, si sentivano le allodole. Ai soldati sembrava strano che ci fossero gli uccelli, ma in realtà erano lì da secoli. La cosa strana, piuttosto, era la presenza dei soldati. Un’altra cosa che a molti sembrava strana era che le allodole cantassero proprio nella loro lingua. In inglese per gli inglese, in francese per i francesi, in olandese per gli olandesi. Ancora più incredibile era che, dall’altra parte delle trincee, a pochi centinai di metri, le allodole cantassero in tedesco. In quella guerra, tutto era incredibilmente privo di senso”.
Le farfalle del titolo italiano, invece, riecheggiano le effimere e bellissime creazioni che Clarry manda a Peter quando langue in collegio, lontano da casa e cerca di spedire a Rupert per riportargli un po’ del calore e dell’affetto di casa, mentre si trova sul vecchio continente a combattere.
La guerra delle farfalle di Hilary McKay – Giunti (2021) – pag. 297