Lo spettro di Cernobyl

Sarà che non sono più giovanissima ma io Cernobyl me la ricordo. Ricordo le notizie frammentarie che arrivavano dall’Unione sovietica e la preoccupazione del resto d’Europa. Tutte le rassicurazioni, poco potevano rispetto ai contatori Geiger impazziti e la nuvola radioattiva che vagava sui cieli non bloccata certo dalle frontiere.

Era fine aprile, le giornate si erano già allungate, la Primavera era nell’aria così come la voglia di aria aperta e di organizzare picnic per il 1 maggio. Ma nell’aria si respirava anche paura. Paura di qualcosa che non si conosceva ma che incuteva terrore, le immagini di Hisoshima e Nagasaki riecheggiavano nella memoria…

Per questo e per la curiosità che mi ha messo la lettura de L’ultimo amore di Baba Dunja ho letto con estremo interesse Preghiere per Cernobyl di Svetlana Aleksievic premio Nobel per la Letteratura 2015.

Un libro testimonianza su ciò che accadde il 26 aprile 1986 e quali furono le reazioni di chi ne fu coinvolto in prima persona perché abitava nel raggio di ricaduta nucleare o fu chiamato a cercare di contenere gli effetti più terribili dell’incidente.

Un pugno nello stomaco e un caleidoscopio di voci che ricordano, riflettono, raccontano la loro storia e quella di mariti, figli, genitori: tutte vite travolte dal tragico evento.

I soldati precettati per andare a scavare, i “liquidatori” che dovevano ripulire dal momento che robot, macchine e attrezzature elettriche ed elettroniche, solo dopo pochi minuti andavano in tilt e smettevano di funzionare. L’incongruità di effettuare enormi scavi dove interrare terra, alberi, edifici, senza tener conto della vicinanza alle falde acquifere.

Bambini e famiglie evacuate con l’idea che dopo tre giorni sarebbero tornati a casa. L’ordine tassativo, quasi sempre non eseguito, di non portare nulla con sé. Gli animali domestici abbandonati. La vodka usata come “antidoto” alle radiazioni.

La mancanza di qualsiasi precauzione. Gli alimenti diventati vere e proprie scorie radioattive, i contatori che quando venivano avvicinati impazzivano.

E lo sgomento e l’incredulità di tutti perché la radioattività non si vede: i campi, le case, gli animali tutto era come prima, anzi per certi versi meglio, perché la natura era più rigogliosa, più bella.

Istantanee di immagini che richiamano pace, paesaggi bucolici, vita interrotta, che si intervallano a riflessioni di fisici, di ingegneri che ammettono che nessuno era preparato: avevano fatto esercitazioni per una guerra o un attacco nucleare ma non per un simile disastro.

E poi la mancanza di informazioni, il silenzio su ciò che era accaduto, la contraddittorietà di alcuni ordini, il ritardo con cui fu iniziata l’evacuazione e la voglia di capire cosa fosse successo e perché e soprattutto di chi fosse la colpa: complotto della CIA, sabotaggio, cattiva manutenzione, utilizzo di materiali scadenti, eccessiva fiducia nelle capacità umane, sottovalutazione del pericolo?

Su tutto il senso di ineluttabilità, tipico della cultura russa, unita alla fiducia cieca nel partito, nelle istituzioni.

L’autrice scrive un romanzo – testimonianza utilizzando una “prosa epico-corale”, un genere fatto dalle voci di uomini e donne che testimoniano e raccontano ciò che è accaduto.

Cernobyl ha rappresentato la fine di un’epoca, la cancellazione di centinaia di insediamenti e lo sradicamento dei suoi abitanti, oltre che la fine dell’infallibilità dell’Unione Sovietica l’inizio dello sfaldamento dell’Urss. Quello che ne deriva alla fine è un resoconto duro, terribile soprattutto perché l’orrore che descrive non è frutto della fantasia di una scrittore ma è il racconto vero, reale di ciò che è accaduto.

Preghiera per Cernobyl di Svetlana Aleksievic – edizioni e/o (2005) – pag. 293

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