8 Marzo, ha ancora senso festeggiare?

Festa della Donna o meglio Giornata internazionale dei diritti della donna, una cascata di mimosa, tanta retorica, recriminazioni giuste da parte delle femministe, una sorta di indifferenza da parte degli uomini e un giorno come l’altro per tante tantissime donne.

Ogni anno quando si avvicina l’8 marzo una certa indefinita perplessità e una buona dose di fastidio si impossessa di me. Sono donna, sono fiera di esserlo, ma sento sempre di più la pesantezza del mio genere.

Da bambina e poi da ragazzina essere femmina non mi ha mai fatto sentire diversa dai miei compagni maschi. Ho giocato con le macchinine, ho fatto il portiere nelle partitelle improvvisate, non mi sono mai tirata indietro nelle sfide e ho avuto tanti, tantissimi amici del sesso opposto. Sono stata fortunata? Sicuramente. Fortunata di avere avuto una famiglia che mi ha considerata una persona e non un genere. Fortunata di essere nata in occidente. Fortunata di non aver dovuto indossare un velo, se non per scelta, di non aver dovuto rinunciare agli studi, di non essere stata costretta a sposarmi, di potermi vestire come preferivo e potrei continuare. È andata così fino al termine degli studi universitari, fino a quando non ho affrontata per la prima volta un colloquio di lavoro. Perché lì le cose sono immeritatamente cambiate. Quelle domande fatte col sorriso: sei fidanzata? Hai intenzione di sposarti? Vuoi avere figli? Buttate là come se fosse normale intromettersi nella vita privata e nelle scelte personali delle persone. Domande a cui un uomo non ha mai dovuto rispondere in vita sua. Domande intrusive, domande discriminatorie e soprattutto inutili. Se sono sposata e ho un figlio non sono più intelligente? Non sono più capace di svolgere il lavoro che faccio? In realtà, come ben sa chi lavora e nel frattempo ha casa e figli, risolvere problemi e trovare soluzioni sono una delle qualità essenziali, direi addirittura le più importanti per tenere in piedi tutto, cercando anche di ritagliare del tempo solo per se’. E se la donna si trova spesso schiacciata tra lavoro e famiglia il problema è nella disparità della ripartizione del carico del cosi detto lavoro di cura.

Se sul lavoro la difficoltà di trovare impieghi qualificati e con buoni stipendi non è facile, è sul fronte familiare che il “peso” di essere donna si sente di più. È quel famoso carico mentale che grava su ogni donna. Non si può generalizzare e probabilmente gli uomini delle ultime generazioni sono migliorati, però il peso di gestire la famiglia, di preoccuparsi dei figli, dal firmare le giustificazioni o andare a sentire i professori, a portarli dal pediatra, dal comprargli i vestiti a controllare i compiti, sono nella maggior parte dei casi compiti femminili. Per non parlare poi della gestione della casa, spesa, pulizie, lavatrici, stiro, preparazione dei pranzi e delle cene. Compiti che possono essere anche piacevoli se fatti una tantum, ma che diventano un incubo quando sono ripetuti e continui ed arrivano comunque al termine di tutto il resto. Perché in queste cose non ha importanza che la donna sia avvocato, dottore, pilota o amministratore delegato – e ho utilizzato volutamente il maschile, perché la lotta sul genere di alcuni nomi a me personalmente sta stretta – alla fine della sua giornata dovrà anche preoccuparsi della spesa, del bucato, della cena o dell’organizzazione della giornata dei figli.

Torno quindi a chiedermi: ha ancora senso celebrare questa ricorrenza? Ha senso un giorno di proclami sulla uguaglianza di generi? Un giorno in cui si ribadisce che la donna ha diritto di decidere di se stessa, di vestirsi come vuole, di dire di no, di camminare di notte da sola, di studiare, votare, toglier il velo, abortire, fare o meno figli, lasciare un marito o un fidanzato senza rischiare di trovarsi cadavere, far sentire la propria voce, essere autorevole, poter fare qualsiasi lavoro, ma anche ricoprire ruoli di potere, fare carriera, guadagnare quanto un uomo (e potrei continuare all’infinito)? Perché secondo me questi sono tutti diritti acquisiti (almeno in occidente)?

Eppure scorrendo la lista ci si rende conto che tanti di questi diritti in realtà lo sono solo sulla carta.

Puoi vestirti come vuoi? Sì, però non ti lamentare se ti dicono che sembri una poco di buono e se qualche uomo si sente libero di metterti le mani addosso se non peggio.

Puoi avere o meno figli? Sì però troverai sempre qualcuno che si sentirà autorizzato a chiederti perché non vuoi figli, a dirti che se non ne fai non sarai mai realizzata come donna.

Puoi lasciare un uomo che non ami più? Sì però dovrai fare i conti con uomini incapaci di accettare di essere lasciati. E giustificati poi dalla stampa e da una parte dell’opinione pubblica, se ricorreranno alla violenza, perché soffrono.

Per non parlare del modo in cui cambia il modo di interpretare un gesto quando questo è fatto da un un uomo o da una donna. E a tal proposito trovo estremamente azzeccato il discorso fatto dalla scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie.

«Nel nostro mondo un uomo è sicuro di sé, una donna è arrogante. Un uomo è senza compromessi, una donna è rompicoglioni. Un uomo è assertivo, una donna aggressiva. Un uomo è stratega, una donna è manipolatrice. Un uomo è un leader, una donna ha manie di controllo. Un uomo è autorevole, una donna è prepotente. Le caratteristiche e i comportamenti sono gli stessi, l’unica cosa che cambia è il sesso ed è in base al sesso che il mondo ci giudica e tratta diversamente. Ogni volta che parlo di femminismo c’è qualcuno che invariabilmente mi applica l’etichetta di “rabbiosa”, come se a una donna non fosse permesso provare rabbia senza che la rabbia diventi il suo stesso modo di essere. La rabbia è un’emozione umana e ci sono molte cose per cui mi sento arrabbiata (…) ma i miei sentimenti di rabbia non implicano che io sia una persona rabbiosa. Un uomo che ha giusti motivi di rabbia non viene ridotto alla condizione di persona rabbiosa»

Per questo atteggiamento mentale siamo ancora lontane da un’uguaglianza vera, lontane da stipendi uguali, dalla gestione paritaria della casa e dei figli, lontane anche da certi atteggiamenti che tendono sempre a “giustificare” l’uomo e mai la donna. Penso alle relazioni con persone di età diverse, all’accettazione del proprio corpo e così via.

Per concludere ecco perché l’8 marzo ha ancora un senso. Il senso di ricordare quanta strada resta ancora da percorrere, quante battaglie da combattere, quante idee da cambiare.

Per me, comunque, il giorno di festa vera sarà, però, quando l’8 marzo non si festeggerà più…

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