Credo che pochi conoscano questo libro, pochissimi ne abbiano almeno sentito parlare e ancora meno lo abbiano mai letto. Eppure La strada di Ann Petry, pubblicato nel 1946, è un romanzo di una potenza devastante. Un romanzo che nonostante sia stato scritto più di 75 anni fa è ancora terribilmente attuale e rimanda ad un elemento con cui, anche noi spesso, mutatis mutandis, abbiamo dovuto fare i conti. Sto parlando di quell’idea ottimista di poter fare tutto, di poter raggiungere qualunque obiettivo ci siamo prefissati, se muniti di impegno e forza di volontà. Quella massima “volere è potere”, detta molto spesso a sproposito, che recita che basta volere, basta impegnarsi a fondo ed è possibile raggiungere qualunque meta.
Lutie crede a questa idea, crede nel sogno americano, è convinta che lavorando sodo, studiando per migliorarsi, risparmiando penny dopo penny riuscirà a cambiare vita, a dare al figlio un domani ricco di possibilità, ad uscire da La Strada del titolo, una strada dove si trovano tantissimi palazzi tutti uguali addossati l’uno all’altro in cui vivono le persone di colore, come lei.
«Si, pensò adesso, lei e Bub dovevano andarsene dalla 116° Street. Era una brutta strada. E poi pensò alle altre. Quella non era l’unica strada che temeva, l’unica brutta strada. Temeva tutte le strade in cui le persone erano stipate come sardine in scatola.
E non era solo quella città. Erano tutte le città in cui era stata tracciata una linea e i neri dovevano stare da un lato e i bianchi da quello opposto, in modo che i neri fossero ammucchiati uno sopra l’altro, schiacciati, pressati, ammassati nel minor spazio possibile fino a ritrovarsi completamente tagliati fuori dalla luce e dall’aria.»
Perché il colore della pelle è una barriera, un muro che divide e rende impossibile seguire e soprattutto raggiungere il sogno di un’esistenza migliore. Siamo lontani dal sud degli Stati Uniti, lontani dalle piantagioni, lontani dalla schiavitù, eppure gli strascichi che ha lasciato, la spaccatura tra bianchi e neri da cui deriva la mancanza di lavoro per gli uomini, che li rende ubriaconi ed indolenti, attaccabrighe e irresponsabili, e il peso che le donne devono sostenere, costrette a lavorare per mantenere la famiglia, svolgendo lavori manuali di bassa lega, come domestiche, cuoche, balie, obbligate ad occuparsi dei figli degli altri, trascurando i propri, nasce proprio da lì.
Un sistema fragile, iniquo e violento, che penalizza tutte le persone di colore, seppure il peso maggiore, ancora una volta, tocchi alle donne, colonna portante (sono loro a mantenere le famiglie, ad occuparsi dei figli e della casa) ma anche destinatarie di tutta la sofferenza e della maggiore sperequazione sociale.
Per Lutie la vita non è mai stata facile, ma l’idea di un futuro diverso, di un appartamento luminoso, di un lavoro che le permetta di occuparsi del figlio di 8 anni Bub è di sprone a darsi da fare. Lei crede sia possibile realizzarsi e realizzare i suoi obiettivi.
«Le donne camminavano lente. Avevano le spalle incurvate dai sacchetti della spesa strapieni. E pensò: Ecco cos’è che non va. Non abbiamo abbastanza tempo o denaro per vivere nello stesso modo degli altri perché le donne sono costrette a lavorare come muli mentre gli uomini poltriscono. Scrollò spazientita le spalle. Non poteva essere sicura che a cinquant’anni non sarebbe stata sformata, che non avrebbe camminato appoggiando solo il lato dei piedi, perché le facevano un male atroce; che non si sarebbe vestita bene per andare in chiesa la domenica e trascorso il resto della settimana sgobbando nella cucina di qualcuno.
Poteva succedere. Ma lei avrebbe rivendicato un po’ di vita per sé. Finora era stata povera, nera, tagliata fuori da tutto come se le avessero sbattuto una porta in faccia. Bé l’avrebbe aperta con la forza; avrebbe bussato e picchiato e l’avrebbe spinta e presa a scalpellate se necessario.»
Leggendo La strada non ho potuto fare a meno di paragonare Lutie a Celie de Il colore viola. Entrambe donne, entrambe nere, la prima caparbia e determinata, la seconda remissiva e rassegnata, eppure Celie è circondata da persone che saranno determinanti per la sua crescita personale e per il cambiamento che la coinvolgerà, mentre Lutie è sola, non ha nessuno a cui appoggiarsi, nessuno a cui chiedere consiglio, nessuno che la possa aiutare. E questa solitudine sarà la sua rovina.
Così come funesta e dannata è la sua bellezza. Quante volte nelle donne la bellezza anziché rappresentare un dono diventa una maledizione, perché gli uomini si sentono irresistibilmente attratti da lei mentre le donne la vedono e la vivono come una nemica, come colei che può sottrarre affetto e attenzione all’uomo che hanno accanto. La bellezza rende la donna una preda da cacciare, un oggetto, la cui conquista inorgoglisce l’uomo. E questo elemento me l’ha fatta associare ad un altro personaggio letterario, lontanissimo per tempo e carattere, ma che subisce come lei la rovina proprio a causa del desiderio suscitato dalla sua bellezza: Tess dei d’Urberville di Thomas Hardy.
Ann Petry dipinge una società estremamente razzista in cui la lotta per la sopravvivenza coinvolge un po’ tutti e in un romanzo, che è focalizzato sulla figura di Lutie, dedica almeno un capitolo agli altri inquilini del palazzo in cui la donna vive. Le storie di Mrs Hedges la tenutaria del bordello del pian terreno, del custode Jones, della donna che vive con lui Min, di Boots Smith e di Junto, il ricco bianco che spadroneggia nel quartiere, si intrecciano alla storia principale e alle vicende che coinvolgono Lutie e l’autrice riesce sapientemente a tratteggiare le luci e le ombre di tutti, evidenziando come ognuno è alle prese con una disperata lotta per esistere, per non essere soltanto una delle tante facce nere che popolano Harlem.
Un romanzo claustrofobico, che ti si appiccica addosso, perché la stanchezza di Lutie, la sua voglia di riscatto, il desiderio di credere al di là di tutto e di tutti che un futuro diverso è possibile, tocca l’anima del lettore. Il mondo descritto da Ann Petry è un mondo ostile, freddo, prevaricatore, e le vicende narrate sono crude e amare. Impossibile rimanere indifferenti di fronte al dolore palpabile di Lutie, alla solitudine sua e di suo figlio, spaventato a rimanere al buio e consapevole di incorrere nei rimproveri della madre quando, rientrando troverà accesa la luce. La descrizione delle scale strette, degli ambienti angusti, della sporcizia che si accumula nei cortili, delle carte che volano nella strada, racconta uno squallore che non se ne va per quanto una possa provare a pulire e coprire la desolante mancanza di luce, di spazio, di armonia. Un romanzo che fa male, con un finale che spezza al cuore, ma imperdibile.
E proprio in questa sorta di desolazione esistenziale, il romanzo diventa universale, racconta una sofferenza che va al di là del colore della pelle. Quante volte anche noi ci siamo lasciati cullare da sogni ad occhi aperti e abbiamo sbattuto contro la realtà? Leggete questa frase e ditemi non vi siete mai sentiti cosi?
«Il problema era lei. Si era costruita una struttura immaginaria fatta dalla stessa sostanza soffice, nebulosa e torbida dei sogni. Non c’era un solo mattone solido, concreto, niente fondamenta. L’aveva creata con l’aria e il vapore e ci era tuffata dentro. Perciò era naturale che fosse collassata. Non era mai esistita da nessuna parte se non nella sua mente.»
Un’ultima annotazione quando venne pubblicato nel 1946, “La strada” fu il primo romanzo di un’autrice afroamericana a vendere più di un milione di copie, ed è tuttora considerato un grande classico della letteratura americana. Assolutamente da leggere, senza se e senza ma.
La strada di Ann Petry – Mondadori (2020) – pag. 378