Quanta fatica iniziale mi ha fatto fare questo libro. Amando immensamente I miserabili, conoscendo la penna di Victor Hugo, sapendo come tende a deviare dalla narrazione principale, non credevo di imbattermi in un’opera così diversa e per certi versi così ostica, rispetto all’altra.
Hugo in Notre Dame de Paris si perde, non credo si possa dire diversamente, in mille descrizioni sulla città, rimarcando le tante differenze con la Parigi del 1830 e le, a suo parere, irragionevoli e folli modifiche architettoniche che la città ha subito negli ultimi trecento anni.
Divaga, descrivendo la suddivisione di Parigi in tre zone principali:
“tre città assolutamente distinte e separate tra loro, aventi ciascuna la propria fisionomia, la propria specialità, i propri privilegi, la propria storia: la Città Vecchia, l’Università, la Città Nuova.”
Descrive nei minimi dettagli l’architettura della cattedrale, Notre-Dame, rimarcando il degrado in cui la bellissima chiesa versava nel 1830 e favorendo, grazie a questo romanzo, il suo restauro e il ripristino di parti rimosse o modificate nei secoli.
Compie un interessante riflessione su architettura e letteratura, come arti che riflettono e sublimano il pensiero umano.
“Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l’edificio. … Era il presentimento che il pensiero umano, mutando forma, stava per mutar modo di espressione, che l’idea fondamentale di ogni generazione non sarebbe più stata scritta con la stessa materia e nel medesimo modo; che il libro di pietra, per solido e durevole che fosse, stava per lasciare il posto al libro di carta, ancora più solido e più duraturo. … significava che un’arte stava per detronizzarne un’altra. Voleva dire «La stampa ucciderà l’architettura». Dall’origine delle cose fino al quindicesimo secolo dell’era cristiana, incluso, l’architettura, infatti, è il gran libro dell’umanità, l’espressione principale dell’uomo ai suoi diversi stadi di sviluppo, sia come forza fisica, sia come intelligenza. … Nel quindicesimo secolo tutto muta. Il pensiero umano scopre, per perpetrarsi, un mezzo non soltanto più durevole e più resistente dell’architettura, ma anche più semplice e facile. L’architettura è detronizzata. Alle lettere di pietra di Orfeo stanno per succedere le lettere di piombo di Gutenberg. Il libro sta per uccidere l’edificio. L’invenzione della stampa è il più grande avvenimento della storia. E’ la rivoluzione madre. E’ il modo di esprimersi dell’umanità che si rinnova totalmente, è il pensiero umano che depone una forma e ne riveste un’altra, è il competo e definitivo cambiamento di pelle di quel serpente simbolico, che da Adamo in poi, rappresenta l’intelligenza.”
Per circa trecento pagine l’intreccio narrativo si perde in queste continue divagazioni.
Fino a far domandare al lettore dove sia la storia di Esmeralda, Quasimodo, Frollo, Febo, straconosciuta tramite il cartone della Disney e il musical.
I personaggi vengono via via presentati e sicuramente ben caratterizzati, soprattutto nelle pulsioni che agitano il loro animo, ma non succede praticamente nulla. Tutta la tragedia e la bellezza di quest’opera trovano compimento nelle ultime duecento pagine. E anche lì di digressioni ve ne sono parecchie.
Eppure la storia di Esmeralda giovanissima zingara, dalla bellezza esotica che accende di passione il cuore del rigido ed inflessibile Frollo, un prete severo, dedito allo studio, appassionato di alchimia, ma anche quello di Febo, bellissimo e vacuo comandante delle guardie che con la bella zingara vuole solo divertirsi e infine quello di Quasimodo, gobbo deforme, sordo campanaro della cattedrale di Notre Dame, l’unico che la ama per la sua gentilezza, per ciò che ha fatto per lui quando era alla gogna e non solo per il suo aspetto fisico, non può lasciare indifferenti.
Le umane passioni, violente e dirompenti, come il fuoco, accendono le ultime pagine di una luminosità sublime.
Come restare indifferenti alla sofferenza di Esmeralda, orfana, allevata dagli zingari, attaccata ad un amuleto che può farle ritrovare la sua famiglia, che non capisce il perché della sua condanna, e che si è trovata coinvolta nel ferimento del capitano solo per essersi innamorata della sua bellezza?
Come non provare compassione per Quasimodo, essere deforme che nessuno ama, che trova conforto solo nella cattedrale, che conosce in ogni anfratto e considera una cosa viva, fino a dare i nomi alle campane e che fino in fondo, pur disprezzandolo, prova riconoscenza ed affetto per quel prete che lo ha tolto dalla ruota ed allevato?
Come non comprendere il tormento che agita Frollo, glaciale studioso, che non riesce a mettere freno alla sua libidine seppur dia origine a tanto male?
Come non soffrire con Paquette, “la Chantefleurie”, reclusa volontaria nel Buco dei Topi, impazzita dal dolore di vedersi sottratta l’unica speranza di una vita migliore, il riscatto vivente alla degradazione in cui è caduta?
E il romanzo che inizia in modo buffo, con la descrizione della folla accalcata per vedere il corteo degli ambasciatori fiamminghi, pronta a godere della rappresentazione di un Mistero teatrale e ad eleggere il Papa dei Folli, a poco poco vira fino a diventare tragedia.
E Forse, alla fine si può dire che la vera e sola protagonista di questo romanzo è Parigi, a cui Hugo dedica il proprio inno d’amore.
Notre-Dame de Paris di Victor Hugo – I grandi Romanzi Corriere della sera (2002) – pag. 538