“In me conta solo ciò che non viene visto, conta solo ciò che non viene sentito. E’ nell’oscurità che vivo la mia vita reale, la mia vita vera, in me stessa e per me stessa. Dietro il sipario della mia anima”.
Ascoltare Alexandra Lapierre, figlia di Dominique, autore dell’indimenticabile La città della gioia, al Salone del Libro di Torino, parlare di questo libro, della sua genesi, degli anni di ricerche che gli ha dedicato, e decidere di proporlo come prossima lettura per #ilrazzismonellaletteratura è stato tutt’uno. E mai scelta è stata più azzeccata.
Intanto ha portato me e le ragazze del gruppo a scoprire un altro tassello della storia della comunità afroamericana, quella del Passing, l’atto di farsi passare per bianco pur essendo nero in termine di legge. Dal 1877 al 1964 la popolazione americana venne divisa, per legge, tra white or colored, obbligando gli individui di sangue misto a dichiararsi neri in base al “one drop rule” “regola dell’unica goccia di sangue”, secondo la quale un unico antenato africano era sufficiente a far sì che tutta la discendenza fosse di colore. La Jim Crow Law del 1877 aveva inserito la discriminazione basata sul colore della pelle come legge: divieto ai neri di salire sugli stessi treni dei bianchi, di bere alle stesse fontane, di utilizzare gli stessi gabinetti, di frequentare gli stessi luoghi pubblici, gli stessi ristoranti, gli stessi teatri e ovviamente le stesse università. Di fatto, impedire ai neri di accedere all’istruzione, di esercitare una professione e di frequentare gli stessi ambienti dei bianchi, li ricacciava nei ghetti ed impediva loro qualsiasi evoluzione e sviluppo, tagliava loro la possibilità di avere un futuro, se non come domestici, autisti, inservienti.
Per tutti quelli che avevano un colore della pelle chiaro e potevano passare per ispanici o latino americani, il Passing fu quasi sempre una scelta obbligata, seppur estremamente rischiosa, visto che era un reato che poteva portare alla forca. Permetteva, però, loro di studiare, di vivere una vita normale, trovare un lavoro, frequentare qualsiasi luogo. Naturalmente questo aveva come rovescio della medaglia, dover abbandonare la propria comunità, rinnegare le proprie origini, non avere più legami con parenti e amici, ricrearsi ex novo un passato che cancellasse le tracce di sangue nero, riscrivesse la propria storia e di fatto creasse persone nuove.
Questo è quello che fece Belle Greene con la madre Geneviene e i fratelli. Approfittando dell’allontanamento del padre Richard Greener, primo studente nero ad Harvard, primo professore nero titolare di cattedra, avvocato e unico nero a poter esercitare la professione forense, rinunciarono ai legami familiari e si fecero passare per portoghesi di nobili origini.
La scelta del Passing era una scelta definitiva e lacerante, illuminante a tal proposito sono i due colloqui, uno tra la madre di Belle e la nonna, prima del passaggio, l’altro l’incontro, dopo anni, tra Belle e il padre. In entrambi i colloqui, dolorosissimi, viene rimarcata la spaccatura netta che si creava sia in chi compiva il Passing sia in chi rimaneva fedele al colore della pelle. Questi ultimi, oltretutto, consideravano tale passaggio un vero e proprio tradimento
“Sono la sola e unica persona in grado di determinare il mio posto nel mondo. Pretendo di essere accettata su queste basi e mi rifiuto che qualcuno mi dica chi sono o chi dovrei essere”.
“Piccola mia, essere neri è molto più che un semplice fatto di colore, significa condividere le stesse esperienze, gli stessi ricordi, le stesse battute, le stesse storie, le stesse canzoni. Ho conosciuto giovani che sono voluti passare dall’altra parte, come dici tu. Dopo, hanno avuto un solo desiderio: tornare indietro, tornare a casa. Però era impossibile. Come loro, anche tu conoscerai la nostalgia, la solitudine, il rimpianto”.
Ma Belle Greene è molto più di tutto questo. E’ la storia di una donna forte, volitiva, che nascosto il proprio segreto, decise di scrivere la propria storia senza farsi condizionare da nessuno. Se si pensa alla condizione femminile di inizio secolo, si capisce che Belle, donna, nera e single, fu rivoluzionaria sotto molteplici aspetti. Sicuramente fu anche fortunata, si trovò al momento giusto nel posto giusto: aver conosciuto Junius Morgan, nipote del banchiere J.P. e per molti anni artefice della costruzione di una delle più impressionanti collezioni d’arte della storia, le permise non solo di imparare tantissimo, ma anche di candidarsi come bibliotecaria per la nascente biblioteca dello zio. E’ l’inizio di una carriera incredibile che la porterà ad essere una delle donne più pagate del momento e a creare una delle più stupefacenti biblioteche esistenti al mondo. Perché Belle, fin da piccola, voleva lavorare tra i libri.
“Da quando aveva dodici anni non faceva che dire quanto le piacesse guardare i libri, toccarli, perfino respirarli, quanto ne sentisse l’anima… sosteneva di percepire tutto ciò che emanavano in termini di sogni, emozioni e bellezza”
Leggere Belle Greene è un viaggio tra opere d’arte, aste, libri miniati dal valore inestimabile, momenti storici (tra cui l’affondamento del Titanic), incontrando personalità dalla cultura, la ricchezza o la fama che dura tutt’oggi, ma è anche una riflessione sui compromessi e le rinunce che occorre fare per raggiungere i propri sogni. Perché Belle Greene è molto più di una dissimulazione, è il ritratto di una donna anticonformista, volitiva e caparbia che riuscì a realizzare i propri desideri, seppur pagando, alla fine, un prezzo altissimo.
“Il mio problema? La curiosità. Un desiderio insaziabile e irresistibile, per non dire folle, di conoscere tutto. Conoscere l’universo, cioè il mondo intero. Conoscere le persone, tutte le persone. Conoscere tutte le emozioni. Conoscere tutti i tipi di rapporti umani, siano essi divini o infernali.”
Belle Greene di Alexandra Lapierre – edizioni e/o (2021) – pag. 507