Che cosa dovrebbe avere un abito per essere perfetto? Soprattutto far stare bene chi lo indossa: regalare sicurezza, bellezza, far sentire a proprio agio, valorizzare l’incarnato, il portamento, il fisico della donna.
In realtà l’immaginario collettivo era costantemente suggestionato dal messaggio: indossami e diventerai come me.
Lei invece credeva in qualcosa di diverso. Era la persona a essere speciale. E in quanto tale doveva portare un abito con cui si sarebbe sentita a proprio agio, capace di infondere benessere. Il vestito non era altro che un mezzo che doveva rendere felici, rappresentare, decorare.
Ed è proprio quello che cerca di fare Camilla, una giovane stilista che ha le idee molto chiare su ciò che vorrebbe: regalare alle donne un abito perfetto e allo stesso tempo ridare vita ad abiti che ormai non sono più di moda riutilizzando la stoffa e dando loro una nuova esistenza, creando un forte legame tra passato e futuro. In realtà Camilla era destinata ad ereditare la direzione artistica della Manifattura di Marianne Leclerc, la donna, che alla morte dei suoi genitori, l’ha accolta, amata e che vuole lasciarle il suo impero. Proprio per evitare pressioni e cercare di seguire la sua strada, Camilla si è allontanata volontariamente da Marianne e da tutto ciò che conosceva ed amava, ma l’improvviso ricovero della sua Mamy la riportano indietro. Marianne vuole che Camilla faccia qualcosa per lei, rintracci sua sorella. Una sorella mai conosciuta, di cui la madre Caterina le ha parlato in punto di morte, lasciandole in eredità un baule colmo di abiti preziosi, cuciti appositamente per lei.
Per Camilla sarà l’inizio di una ricerca incentrata su dei misteriosi sacchettini inseriti nelle fodere dei vestiti, i cosi detti “scrapolari”, piccoli quadrati di tessuto, delle specie di taschine cucite all’interno dei vestiti, in cui venivano inseriti bigliettini, spighe di lavanda, boccioli di fiori, immagini sacre o amuleti, fiori, semi o portafortuna. celati a tutti, ma che nascondevano in sé una magia antica che si sprigionava in chi li indossava.
“Secondo una tradizione che si perdeva nella notte dei tempi, quando le sacerdotesse erano anche sacerdotesse, gli scrapolari erano sacchetti di stoffa che non dovevano mai essere aperti e custodivano al loro interno l’essenza di chi li avrebbe portati, cuciti nei propri vestiti. Proteggevano dai nemici e dai pensieri cattivi, rafforzavano la volontà, aiutavano ad avere fiducia in sé stessi. Attiravano la grazia del Signore e degli angeli. Erano composti da due pagine di stoffa, piccoli e preziosi. Contenevano i brebus, parole di grande forza che appartenevano alle tradizioni di quella terra antica. Spighe di lavanda, fiori di elicriso, grani di frumento, orzo, doni della terra. E preghiere scritte in una grafia sottilissima.”
Per Camilla inizia una sorta di caccia al tesoro per rintracciare la sorella di Marianne e allo stesso tempo ricostruire la storia di sua madre Caterina. Partendo proprio dai meravigliosi abiti contenuti nel baule, Camilla arriverà a Parigi sulle tracce di Maribel una misteriosa stilista vissuta a Parigi e scomparsa misteriosamente in un incendio durante la seconda guerra mondiale, che, proprio come Caterina, cuciva all’interno dei vestiti sacchetti contenenti i desideri delle donne che li avrebbero indossati.
“Era una stilista vissuta in Francia nel periodo della seconda guerra mondiale. Di lei si sa veramente poco. La sua esistenza si perde nella leggenda. Qualcuno afferma che abbia lasciato la Francia e si sia trasferita negli Stati Uniti, altri insistono nel sostenere che sia morta a Parigi. Il suo atelier, secondo le voci che circolano sul suo conto, fu distrutto da un incendio. La verità è che non esistono prove, né notizie di lei successive a quel periodo. Maribelle scomparve dalla scena durante la seconda guerra mondiale.”
Intrecciando passato e presente, ricostruendo la straordinaria storia di Caterina, svelando i dubbi e i sogni di Camilla, Cristina Caboni, tramite una scrittura vivida, ci regala una storia antica e moderna, fatta di tradimenti e sconfitte, di incapacità di amare e cinismo, ma anche di altruismo e generosità. Tra Parigi e la Sardegna, fino a Como e al lavoro delle sue manifatture si snoda una storia appassionante e coinvolgente, dove trova posto anche l’orrore della guerra, la follia nazista e dei tanti collaborazionisti.
Una delle particolarità dei romanzi di Cristina Caboni è la piccola didascalia inserita ad inizio capitolo e dedicata al tema dominante della narrazione, con cui l’autrice arricchisce ogni suo libro. In questo caso siamo nel campo della moda, dei tessuti delle stoffe, dei ricami, di quell’arte antichissima del telaio, che affonda le sue origini nella storia dell’uomo, perciò l’approfondimento è sui tessuti: cotone, crespo, feltro, alpaca, lino e così via. Il tessuto infondo è composto da un insieme di fili diversi e diventa, di conseguenza, realmente o metaforicamente, il filo conduttore: l’intreccio e la trama che formano storie da sciogliere e riannodare.
A parte la storia commovente ed appassionante la cosa che mi è piaciuta di più di questo libro è il messaggio ecosostenibile: la necessità di dare nuova vita agli abiti, l’idea che un’economia diversa sia possibile, che possiamo abbandonare il consumismo sfrenato e tornare a cercare un legame più vero anche con cosa indossiamo.
La moda non può essere solo il trionfo dell’effimero, in una continua, estenuante ed inutile rincorsa, in cui quello che è moda oggi è rifiuto il giorno dopo. Non se lo può più permettere il pianeta, soffocato dall’assurdità e vacuità dell’usa e getta e non ce lo possiamo più permettere noi se vogliamo essere eticamente corretti, rispetto non solo all’impatto più prettamente ecologico ma anche al lavoro sottopagato ed in condizioni proibitive di tante parti del mondo, a cui l’autrice dedica una parte, richiamando l’esperienza delle così dette “fabbriche lente”, realtà più piccole, a dimensione umana, nate per venire incontro alle esigenze anche delle madri con figli.
La stanza della tessitrice di Cristina Caboni – Garzanti (2018) – pag. 299