Sono passati due anni, due lunghissimi estenuanti anni, due anni infiniti per chi in quella striscia di terra devastata, bombardata, affamata, allo stremo, viveva e sognava.
Sfido chiunque ad immaginare che il 7 ottobre 2023 avrebbe messo fine all’ipocrisia della bontà occidentale, avrebbe spaccato il mondo tra pro e contro, polarizzato l’opinione pubblica ancora più del solito, e avrebbe posto la lapide sul diritto internazionale, sull’autoregolamentazione dei popoli e su tutte le convenzioni internazionali con cui ci eravamo illusi di aver creato un sistema di valori condivisi, solidi ed incrollabili. Ottant’anni senza guerre, almeno nel nostro mondo, ci avevano cullato che tutto l’orrore era ormai confinato e circoscritto nel passato. Un passato che rimaneva relegato nei libri di storia, nei romanzi, ma che non sarebbe accaduto mai più.
E’ bastato un attacco di un gruppo terrorista, da condannare senza se e senza ma, a dare inizio ad una reazione tanto violenta quanto ingiustificata di uno stato, considerato democratico, che non ha perso tempo a convogliare e manipolare a suo favore gran parte dell’opinione pubblica, utilizzare mezzi militari e strategici illimitati per disintegrare un popolo, una terra, già oppressa da settant’anni di regime di apartheid. Completando così una colonizzazione violenta, che ha come obiettivo quello della grande Israele, di biblica memoria, che a me fa tremare i polsi.
Il tutto nel silenzio, nell’omertà, nelle mezze parole, nella reticenza, nella complicità di tutti i paesi occidentali, che hanno preferito chiudere gli occhi, rinnegare ottant’anni di norme e convenzioni internazionali, abbassando la testa di fronte alla violenza, soppesando le parole, ponendo distinguo, riscrivendo la storia e calpestando diritti e democrazia. Due anni, più di 700 giorni in cui donne, uomini, bambini, famiglie, sono stati spostati come capi di bestiame da una parte all’altra di una striscia di terra, in cui vivono da millenni, trovando solo devastazione e morte.
Per questo è essenziale informarsi, non limitarsi a prender per buono tutto quello che ci raccontano, essere consapevoli che se il 7 ottobre è probabilmente finito un sistema di valori, non è iniziato tutto lì.
Ringrazio @anothercoffeestories_editore per avermi offerto la possibilità di leggere la testimonianza accorata della vita a Gaza ne L’ultimo respiro di Gaza di Naim Abu Saif @naim.gaza.saif
Un libro che racconta tutta la sofferenza, l’impotenza, il dolore, di chi ha perso tutto, ha visto disintegrarsi davanti ai propri occhi il proprio mondo, la casa in cui viveva, le persone che amava, il proprio sistema sociale, trovandosi davanti solo una distesa infinita di macerie, di tende, dove anche un materasso o una coperta sono un lusso, dove si muore per prendere un pugno di riso, dove neanche una bandiera bianca, un convoglio di ambulanze, un ospedale sono luoghi sicuri, dove la vita umana non vale più niente e dove l’umanità ha perso la propria anima.
L’autore di questa preziosa testimonianza diretta, Naim Abu Saif, è un ragazzo di ventidue anni, proveniente dal nord della Striscia di Gaza, che, prima del 7 ottobre, stava studiando per diventare giornalista.
In queste pagine, utilizzando la scrittura come arma di resistenza, ha voluto raccontare cosa significa vivere senza diritti, senza speranza, sotto il costante bombardamento israeliano.
Un racconto lucido incentrato sulla storia di una famiglia con una madre vedova e cinque figli sballottati di qua e di là senza certezze, dal nord di Gaza a Jabalia, poi nelle scuole dell’UNRWA, troppo affollate e prive anche delle più minime condizioni igieniche; e poi ancora verso il sud, a Khan Younis. Un viaggio all’inferno, senza più alcuna certezza, tra i continui lutti e l’impossibilità di trovare uno spiraglio di conforto o di speranza.
Ed in mezzo a tanta desolazione, sprazzi di poesia e nostalgia, come il ricordo delle arance di Jaffa e del desiderio di poter un giorno tornare nelle terre avite. Ma anche la presenza di delinquenti di ogni risma, dai ladri che violano le case abbandonate saccheggiandone i beni; ad un gruppo chiamato i “Perdenti”, che approfittano della vulnerabilità e fragilità degli sfollati, fino alla “Brigata dei Banditi” che intercetta convogli contenenti aiuti umanitari, per poi vendere i prodotti a prezzi esorbitanti.
L’idea del libro, come si legge nelle prefazione di Anna Giada Altomare, editrice e fondatrice della Another Coffee Stories, è quello di contribuire a dare un futuro a Naim Abu Saif, rompendo il silenzio, non chiudendo gli occhi, dando testimonianza e dimostrando così di avere un’anima. Vi lascio le sue importantissime parole:
Questo libro vuole rompere il silenzio.
Vuole fare spazio a una voce che spesso viene ignorata o censurata.
Non perché ci dica cosa pensare, ma perché ci invita a pensare.
Vi chiede di ascoltare voi stessi, nel profondo.
Di leggere.
Di sentire.
Noi che umanità vogliamo essere?
Vogliamo essere quella che seleziona i dolori accettabili e quelli trascurabili?
Quella che legittima la morte di bambini e studenti in nome della geopolitica?
O vogliamo essere un’umanità capace di fermarsi, di riconoscere, di rispondere, di prendersi cura?
L’ultimo respiro di Gaza di Naim Abu Saif (2025) Another Coffee Stories – pag. 166

