Ci sono libri a cui continui a pensare a distanza di giorni, settimane, mesi. Libri che ti spingono a riflettere più di quanto vorresti. Libri che, nonostante il tema non facile, vorresti leggessero tutti perché scardinano tanti preconcetti e invitano a ragionare. Il libro in questione è Prima facie di Suzie Miller.
Un romanzo che tratta un tema forte e con un taglio assolutamente originale. Nato come opera teatrale andata in scena per la prima volta nel 2019 e scritto da una drammaturga, sceneggiatrice australiano-britannica, che è anche avvocata, dato che emerge dal modo preciso, accurato, dettagliato, ma anche appassionante in cui descrive le dinamiche legali, le schermaglie accusa-difesa.
Prima facie è diviso in due parti, un prima e un dopo divisi da una notte.
Un prima in cui Tessa è sicura di se’, consapevole del suo valore, ambiziosa e determinata.
Tessa è una giovane avvocata nata a Luton, 55 km da Londra, dove la sua infanzia è trascorsa in case popolari, con una madre che fa le pulizie, un padre sparito nel nulla, un fratello attaccabrighe. Ha dovuto lottare per ottenere una borsa di studio e frequentare l’università a Cambridge, lavorando nel frattempo. Nulla nella vita le è stato regalato. Per questo vivere a Londra, lavorare in un prestigioso studio legale, indossare la toga e discutere cause è il segno del suo riscatto sociale. Aspira a diventare patrocinatore della Corona e crede fortemente nel suo lavoro.
Per Tessa tutti hanno diritto ad un avvocato, ad essere rappresentati e difesi nel migliore dei modi, non ha importanza di quale crimine siano accusati. Nell’ambiente tutti sanno quanto sia brava soprattutto nell’arte del contro-interrogare, nel mettere alle corde il testimone o la parte civile, nel mostrare le contraddizioni o le incongruenze del suo racconto. Per questo ha discusso anche con la madre che le ha chiesto: «Ma se lui l’ha fatto davvero?». Le ha risposto che il suo lavoro non consiste nel sapere se l’imputato ha commesso o meno il fatto, ma raccontare la versione migliore della sua storia, in modo che la giuria stabilisca se sia più plausibile di quella raccontata dalla polizia.
«Mamma, a dire il vero quello che devo fare io è stare alle regole e fare del mio meglio. Se tutti ci atteniamo alle regole, allora giustizia sarà fatta. E se c’è gente colpevole che se la cava lo stesso, è perché l’accusa non ha fatto bene il suo lavoro. Il mio lavoro è fare in modo che gli innocenti non finiscano in prigione. E’ questo che importa. Tutti hanno diritto ad un processo equo.»
Per questo, quando dopo una serata spensierata con un collega, dopo aver bevuto troppo, si trova ad essere vittima di violenza, tutte le sue certezze vanno in fumo.
Vergogna, sbigottimento, dolore. La decisione di denunciare. La trafila di analisi, interrogatori, dubbi. E la consapevolezza che nulla sarà più come prima.
Un singolo episodio, una leggerezza e la sua vita precedente, i suoi sforzi, il suo lavoro vengono spazzati via come non fossero mai esistiti. Oltre a questo la paura che possa ricapitare, nonché la sensazione di non sentirsi più integra.
Non sono più la persona che ero. Non riesco a fidarmi delle persone, soprattutto degli uomini. Ho smesso di lavorare fino a tardi perché non so chi altro possa fermarsi in ufficio, e qualcuno potrebbe prendermi di sorpresa e farmi male. Non riesco ad accettare il mio corpo come prima, non vedo più l’intimità come qualcosa di positivo.
Un dopo, in cui tutte le sue certezze sono crollate, dove ha paura anche della sua ombra, dove sa di dover ripartire ma non sa più da dove.
L’uomo che l’ha stuprata è ricco, fa parte di quella casta potente che, pur non ostentando, l’ha sempre messa in imbarazzo, parlando di viaggi, case nel sud della Francia, conoscenze altolocate, possibilità che per lei sono sempre state solo un miraggio. Ovviamente si dichiara non colpevole, per lui Tessa era consenziente: non le ha fatto nulla che lei non volesse e desiderasse.
Per questo Tessa capisce che non può arrendersi, non tanto e non solo per se stessa, ma per ogni donna. E da avvocata, che è stata sempre dall’altra parte della barricata, è consapevole dell’enorme difficoltà di essere creduta. Anche senza usare la vita sessuale delle donne, senza mettere l’accento sull’abbigliamento o sulla biancheria indossata, elementi che non sarebbero più accettati in un tribunale, altri aspetti come il vino bevuto, la volontarietà di essere uscita con quell’uomo, averlo fatto entrare in casa propria, disegnano un atteggiamento, implicano una menzogna, perché il “no”, il “basta”, se le cose sono andate avanti in un certo modo, non sono contemplate.
Prima facie colpisce forte proprio grazie al cambiamento di Tessa: sicura del sistema, certa che ogni imputato assolto lo è perché qualcuno non ha fatto bene il suo lavoro, si rende conto sulla sua pelle di quanto il sistema non funzioni. Perché il sistema non tutela la vittima, perché il modo in cui è strutturato il dibattimento penale, in Inghilterra come in Italia, in cui l’imputato può, perché è suo diritto, non farsi interrogare, non rispondere a nessuna domanda, non guardare mai in faccia il giudice per affermare o meno che esisteva il consenso o qual’era l’atteggiamento della donna, mentre la vittima deve subire il fuoco incrociato di domande sempre più incalzanti volte a dimostrare il suo atteggiamento, la sua volontà, il suo comportamento, che diventa terribilmente invasivo soprattutto nel controinterrogatorio, è profondamente sbagliato.
«Ora ho capito che non è giusto. Non è “ragionevole”. Perché ora so, dalla mia esperienza personale di donna e di avvocata insieme, che il vissuto di un’aggressione sessuale non viene ricordato in modalità nitida, coerente, scientifica. Eppure la legge insiste perché ciò avvenga. E senza prove di questo genere, accade troppo spesso che la legge ritenga le testimonianze “inattendibili”.»
Pretendere che chi ha subito violenza debba ripercorrere quello che ha affrontato con coerenza, senza nessuna sbavatura, ricostruendo i fatti “con chiarezza e linearità”, accettando domande private ed intrusive, senza contraddizioni, è accettare che la vittima sia stuprata una seconda volta.
Fenomeno conosciuto con la definizione di vittimizzazione secondaria, conseguenza troppo spesso sottovalutata che ha l’effetto di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima e l’impossibilità di veder riconosciuto il torto subito.
«Ma quando una donna viene violata, le viene inflitta una ferita che la corrode, che comincia con il terrore e il dolore a livello fisico profondo e poi arriva a sopraffare la mente… l’anima».
Prima facie è un romanzo che ragiona sui dati, a partire da quanto le molestie sessuali siano più frequenti e per certi versi naturali di quanto si creda, che l’atteggiamento patriarcale della società porta ad accettare o dare per scontati comportamenti che nascondono violenza e sopraffazione nei confronti delle donne, che spesso non sono neanche visti come tali; per concludere, nella sua scarna essenzialità, che una donna su tre subisce violenza e spesso quella violenza non viene denunciata o se sì porta raramente ad una condanna.
«Quale percentuale di processi di stupro si conclude con una condanna?»
«Bassa».
«Quanto bassa?»
«Uno virgola tre per cento».
Perché la vittima non viene creduta.
E le ultime incalzanti parole di Tessa riecheggiano ancora nella mia testa.
«La legge è un’entità organica, che definiamo noi, che costruiamo noi alla luce delle nostre esperienze. Delle esperienze di tutti: quindi non ci sono più scuse, deve cambiare. Dobbiamo migliorarla, perché la verità è che una donna su tre subisce aggressioni sessuali. Dobbiamo sapere che queste donne avranno la possibilità di essere credute, perché giustizia possa essere fatta».
Un romanzo che affonda come un bisturi, in cui, anche grazie alla narrazione in prima persona, si segue il percorso interiore della donna, la sua fragilità di fronte ad un evento imprevisto e sconvolgente, l’umiliazione, lo scoraggiamento, ma anche la rabbia e la volontà di fare qualcosa in prima persona perché le cose possano cambiare.
Il fatto, poi, che il libro sia scritto da un’avvocata e racconti la storia in prima persona di un’avvocata è un innegabile valor aggiunto; significa ragionare sui dati, portare una testimonianza dall’interno, sapere come funziona il sistema e perché alcune delle regole di quel sistema sono sbagliate e vanno cambiate.
Concludo con un’affermazione inoppugnabile: c’è ancora tanta strada da fare prima di poter dare un vero sostegno e una vera giustizia alle vittime di violenza.
Prima facie di Suzie Miller 2023 Neri Pozza Bloom (2024) – traduzione di Annalisa Di Liddo – pag. 325
Leggendo il tuo articolo mi è tornato in mente un libro di Virginie Despentes in cui lei descriveva la sua esperienza di stupro e quanto l’abbia cambiata anche in modi inaspettati. La scrittrice raccconta di essere diventata sex worker, il che fa riflettere sul fatto che ognuno affronta un trauma con i mezzi che ha, invece la società si aspetta dalle donne un certo comportamento che le impedisca di diventare una vittima e un certo contegno quando lo ha subito.
Insomma sul banco degli imputati gli uomini vengono “scusati” perchè hanno istinti irrefrenabili, le colpevoli sono sempre le donne. Questo va decisamente cambiato. Lo leggerò presto!
Assolutamente d’accordo, basta leggere la stampa in occasione di ogni femminicidio o stupro, è tutto un “lui l’amava”, “ha sbagliato, ma…” Sempre e solo giustificazioni e nel linguaggio giuridico questo atteggiamento aumenta a dismisura. Non faresti mai ad una vittima di rapina certe domande, tanto per fare un esempio. Contenta di averti incuriosita e di riparlarne con te quando lo avrai letto