Nell’abisso infernale della mente di un uomo

Ci sono libri che tessono intorno al lettore la sua tela di ragno, imprigionandolo dentro e lasciandolo stordito ed attonito al termine. Questa è la potenza della prosa tagliente e poetica allo stesso tempo di Ananda Devi, scrittrice mauriziana, che già mi aveva conquistata con il precedente romanzo sempre edito da Utopia, Eva dalle sue rovine.

Il sari verde è un lunghissimo flusso di coscienza di un uomo vecchio e malato, costretto in un letto ed assistito dalla figlia e dalla nipote.

Fin dall’inizio la violenza che permea le sue parole, l’odio che traspira da ogni frase, la cattiveria che accompagna ogni sua considerazione o ricordo colpisce come una pugnalata.

Perché quest’uomo è così incattivito ed avvelenato dalla vita? Cosa è successo da renderlo così?

Già dalle prime righe in cui si descrive in negativo “Non sono giovane, né ricco, né bello” e rivendica la sua sincerità, rispetto alle formule vuote e ben educate del mondo moderno, mostra da subito di che pasta è fatto.

Sono un uomo, e sono in via d’estinzione,

Sono vecchio e sono in via di decomposizione.

Se andate in cerca di cose allegre, passate oltre. Se pensate di uscire di qui con la pancia che gorgoglia di buoni sentimenti, avete sbagliato porta.

La malattia lo costringe a letto ma non impedisce alla sua testa e ai suoi ricordi di fluire.

E sono tante tantissime le scene di vita, spezzoni, ricordi, immagini, che a volte nello spazio di poco assumono tutta un’altra prospettiva, come se potesse rileggerle e ricalibrarle ogni volta in modo diverso.

La madre spezzata dalla fatica e dal lavoro, che aveva l’unico desiderio di vederlo diventare dottore, ma è morta prima.

La sua professione, la sua missione, quello che l’ha reso il “dokter”, rispettato e venerato, l’uomo che curava le malattie, che aiutava il prossimo, l’uomo che accorreva dove c’era bisogno spesso portandosi dietro la piccola Kitty sua figlia, la gattina di papà, mai più chiamata con il nome scelto dalla madre, Kaveri Bhavani.

La moglie, il cui volto gli appare nel dormiveglia, scelta perché così diversa da lui. La ricorda quindicenne, allegra e vivace come quando l’ha conosciuta, risente ancora la sua risata sonora. E ricorda anche il matrimonio come un fuoco d’artificio, “uno scoppiettio di finte incandescenze” magnifico ed esaltante, ma fatuo, è bastato un riso bruciato, uno sguardo offeso, l’incedere da regina nei suoi sari preziosi, per decidere di piegarla al suo volere, farle chinare la testa, umiliarla ed annientarla.

La figlia prima preziosa ma poi poco intelligente, incapace di essere all’altezza del suo desiderio.

Nei momenti in cui nella stanza entrano la figlia e la nipote la violenza si riversa nelle parole, l’odio esce come lava dalla sua bocca. Verso una figlia succube, vessata dal padre, costretta a servirlo ed accontentare ogni suo desiderio, senza mai un grazie o una parola gentile, che ricorda la paura sua e della madre, il terrore animale in cui cadevano appena lui arrivava.

E verso la nipote, Malika, una “tisana d’erba grama”, nata da un matrimonio per lui inadatto alla figlia, con un bibliotecario, un topo che è venuto ad usurpare il suo ruolo, meno male che l’uomo è durato poco, è morto presto. E cerca di metterle l’una contro l’altra, di istillare il dubbio nella nipote che la figlia soffra di disturbi di schizofrenia ereditaria, screditando così anche la moglie defunta.

So bene che questa mia rabbia mi ha portato troppo lontano. Ed è, lo ammetto, responsabile di tante cose. Era una sorgente scarlatta che mi travolgeva e impediva ogni ritegno, sporcandomi la bocca con quel suo sapore magnifico. Non potevo picchiare la bimba per farla tacere, picchiavo allora la madre. Era normale. Nulla di cui vergognarsi. Solo molto più tardi gli uomini sono diventatati dei rammolliti e le donne hanno ottenuto di diritti.

Nella consapevolezza che la malattia lo sta lentamente sgretolando ma che la sua mente è ancora lucida e capace di distillare veleno, trova che gli uomini si siano fatti annientare dal senso di colpa e che con quello le donne li stanno lentamente depredando del ruolo che la natura gli ha dato di diritto. Teme la morte, ma non ne ha paura, si sente più forte di tutto.

[…] Mi decompongo e la mia mente è viva, l’ultima cospirazione del corpo contro se stesso. Non c’è una morte preferibile a un’altra. Sono tutte ugualmente crudeli e arbitrarie. Tutte contraddicono la necessità dell’esistenza. Tanti sforzi per vivere, e alla fine ci si ritrova in questa inutilità estrema. Tutto un accumulare di desideri, esigenze, passioni, arrabbiature, grandezza e, alla fine, questo: una massa immonda un in letto che diventa il solo mondo conosciuto, il solo spazio riconosciuto, nessuna geografia, nessuna storia, nessun passato, nessun futuro, nessuna certezza, nessuna fede. Il grande ignoto.

E sulla morte della moglie si concentrano le ultime potentissime pagine di un libro che non lascia tregua.

Una sorta di delirio di onnipotenza, di misoginia, di violenza, verso le donne, verso il loro ruolo, che nell’idea malata e perversa del dokter dovrebbero essere solo di conforto, assistenza, aiuto all’uomo. Esseri fragili, trasparenti, senza idee, senza desideri se non quello di soddisfare l’uomo.

Ananda Devi riesce ad entrare nella mente di un uomo del genere e farci affacciare all’abisso infernale che lo abita. Al contempo farci vedere la sua capacità di manipolare la realtà, di apparire come vittima, di autocommiserarsi, autoassolversi per qualunque violenza, sopruso, abuso commesso. Abile a cambiare le carte in tavola, a riscrivere la storia per dare sempre la versione più consona ai propri interessi. Arrogante nel riconoscersi un ruolo da incompreso, da perseguitato. Un uomo il cui livore, la cui cattiveria, il cui astio verso tutti, compresa la sua famiglia, sembrano un immenso buco nero che inghiotte ogni altro sentimento.

Un uomo, però, lo ribadisco. Ho volutamente evitato di usare la parola “mostro” perché lo renderebbe in qualche modo speciale, diverso, invece la sua spregevolezza è ahimè normale, quella che si legge sulla cronaca nera troppo spesso.

E alla fine la domanda iniziale del perché sia così, se esiste una spiegazione ad un simile comportamento e mentalità rimane senza risposta.

Il sari verde, tramite una scrittura chirurgica e tagliente, diventa archetipo di quella infondata e immotivata violenza contro le donne, violenza senza giustificazione, se non il rivendicare un ruolo di superiorità che non riconosce l’altra, la sua essenza, ma la vuole solo schiacciare.

Il sari verde di Ananda Devi [Le sari vert 2009] – Utopia Editore (2025) – traduzione di Giuseppe G. Allegri – pag. 187

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