Jennette McCurdy, l’attrice protagonista di un paio di serie televisive più famose tra gli adolescenti a metà degli anni 2000, come iCarly e Sam & Cat, in Sono contenta che mia madre è morta scrive la sua autobiografia di bambina costretta a diventare attrice per soddisfare l’esigenza di riscatto della madre.
Jennette è cresciuta con una madre narcisista e profondamente patologica decisa a perseguire il sogno di diventare attrice, attraverso la figlia: a lei non è stato permesso e così lo farà sua figlia.
Lo scopo della mia vita è sempre stato rendere felice mamma, essere la persona che voleva che fossi.
Nata in una famiglia composta da quattro fratelli, con due nonni che vivono nella stessa casa, un padre succube che fa due lavori per riuscire a tirare avanti la baracca e la madre, vero centro e baricentro del gruppo: accumulatrice compulsiva che si ostina a non buttare via nulla, al punto da costringere i figli a dormire su materassini gonfiati in salotto perché sui letti e nelle camere è ammassato di tutto, e una diagnosi di cancro.
Avevo due anni quando alla mamma è stato diagnosticato per la prima volta un cancro al seno al quarto stadio.
E tutta la vita della famiglia è ruotata intorno a questa diagnosi e al senso di colpa costantemente rinfocolato dalla madre che arriva addirittura ad accusare la figlia, di due anni, di essere troppo “su di giri” a cantare Jingle Bells in un filmino, che periodicamente deve essere rivisto, risalente a quando le è stata diagnosticata la malattia.
L’età non è una giustificazione. Mi sento tremendamente in colpa ogni volta che rivediamo quel video. Possibile che non avessi capito? Che stupida idiota. Possibile che non mi fossi resa conto di ciò di cui la mamma aveva bisogno? Aveva bisogno che tutti noi fossimo seri che prendessimo la situazione nel modo più doloroso possibile, che fossimo devastati. Aveva bisogno che non fossimo niente senza di lei.
Jennette McCurdy si trova suo malgrado a farsi acconciare i capelli, ad indossare abiti che odia, a frequentare corsi di ogni genere, danza, recitazione, canto, sorridere o piangere a comando, cosa che le riesce benissimo e per un certo periodo la rende una delle mini attrici più ricercate per questa qualità di indursi le lacrime, a imparare battute, a fare provini che detesta, solo per soddisfare il desiderio della madre.
«Perché possa farlo bene, è importante che Jennette voglia recitare» spiega.
«Oh, lo vuole più di ogni altra cosa» dice la mamma mentre firma lungo la linea tratteggiata della pagina successiva.
Mamma lo vuole più di ogni altra cosa, io no. Questa giornata è stata stressante e tutt’altro che divertente, e se dipendesse da me, non farei più nulla di simile. Ma è vero anche che voglio quello che vuole la mamma, quindi in un certo senso ha ragione.
Jennette McCurdy ricorda i mille episodi di manipolazione e abuso psicologico di cui è stata caratterizzata la sua vita. Dall’utilizzare costantemente la malattia per far presa sulla gente, per far accendere compassione o empatia negli addetti al casting, alle frequenti crisi isteriche con tanto di lancio di cose se le cose non andavano esattamente come voleva lei; dal desiderio di normalità rappresentato per lei dalla frequentazione con la chiesa mormone occasione per uscire di casa e passare tre ore in santa pace, lontano dai doveri, dall’ammassamento dell’abitazione, alle continue lamentale della mamma, le sue accuse verso il padre, considerato inaffidabile e buono a nulla.
E la carriera, di provino in provino, di agente in agente, piccole parti, produzioni più o meno importanti fino a iCarly, il successo in un programma di ragazzi su Nickelodeon, le promesse di un salto di livello mai realizzate, il rapporto con il Creatore della serie, accusato poi di molestie psicologiche e abusi sessuali nei confronti dei ragazzi con cui lavorava.
I livelli di insoddisfazione sempre più alti, il cambiamento nei confronti della gente che la ferma, che vuole l’autografo, che la chiama con il nome della protagonista della serie Sam, che pretende una foto, una dedica, un sorriso. E allo stesso tempo la voglia di prendere le distanze da una vita che non la soddisfa e che vorrebbe cambiare.
L’ansia mi spinge a cercare sempre di compiacere gli altri. E per l’ansia mi faccio fotografare, che firmo autografi e dico che tutto questo è divertente. Ma sotto l’ansia c’è una combinazione profonda e sepolta di sentimenti che ho paura di affrontare. Ho paura di essere amareggiata. Sono troppo giovane per sentirmi così. Soprattutto come conseguenza di una vita che la gente probabilmente invidia. E ho paura di provare risentimento nei confronti di mia madre. La persona per cui ho vissuto. Il mio idolo. Il mio modello. Il mio unico vero amore.
E su tutto il costante, ossessivo, maniacale controllo sul corpo, sul peso. La necessità di sentirsi ancora bambina, di non crescere. Prima un regime di restrizione alimentare imposto dalla madre con un calcolo costante delle calorie fino a sfiorare l’anoressia, poi la bulimia, che all’inizio le pare il giusto compromesso, mangi quanto ti pare, vomiti, resti magra. Ma il cibo diventa ossessione: voglia di rimpinzarsi fino a scoppiare e poi andare in bagno e rimettere tutto.
L’anoressia è regale, dà un senso di controllo, di onnipotenza. La bulimia è sregolata, caotica, patetica. E’ l’anoressia dei poveri.
Un’autobiografia suddivisa in prima e dopo la morte della madre, perché quando dopo anni il cancro torna prepotentemente a divorare la donna, Jennette si ritrova ad essere una ragazza alla deriva, inconsapevole dei danni subiti, incapace di considerare la madre origine dei suoi mali e soprattutto senza uno scopo. Incapace anche solo ad immaginarsi un futuro, consapevole di quanto sia difficile ottenere un vero ruolo di attrice dopo aver trascorso quasi dieci anni su Nickleodeon. Cosciente di non avendo studiato se non in casa, di non essere andata al college, di non non saper far nulla nella vita reale. Conscia che è diventata attrice non per scelta propria ma solo per soddisfare la mamma, che la sua vita è stata caratterizzata esclusivamente da far felice la mamma. Sarà solo dopo un lungo e faticoso percorso di cura dai disturbi alimentari che si renderà conto di quale è stato l’origine dei suoi problemi.
Il ritratto che ne emerge alla fine è terribile.
Una madre malata di seri disturbi mentali, che ha manipolato la figlia e l’ha sfruttata economicamente. Una figlia che non ha vissuto se non sulla scia di quello che la madre aveva deciso per lei. Senza amici, senza scelte, senza la consapevolezza necessaria per rendersi conto di star subendo abusi.
Ho iniziato a non gradire la fama quando ho compiuto sedici anni, ma che ora che ne ho ventuno la disprezzo.
Non aiuta il fatto che sia famosa per una cosa che ho iniziato a fare quando ero bambina. Penso a come sarebbe se tutti fossero famosi per quello che hanno fatto quando avevano tredici anni: la loro band in prima media, il loro progetto scientifico in seconda, il loro spettacolo in terza. Sono gli anni in cui inciampi, cadi e nascondi le cose sotto il tappeto subito dopo averle fatte perché a questo punto sei già oltre. Ma non per me. Sono cristallizzata. La gente continua a vedermi come la persona che ero da ragazzina. So di essermi lasciata da tempo la persona che ero. Ma il mondo non mi permetterà di essere nessun altro. Il mondo vuole soltanto Sam Puckett.
Un testo che esula dalla valutazione stilistica, soprattutto nella seconda parte a causa di un’eccessiva ripetizione delle situazioni raccontate, forse per far comprendere al lettore l’estrema difficoltà avuta da Jennette nell’ammettere l’esistenza di un problema, nell’accettare di curarsi e infine nel capire il tipo di violenza esercitata dalla madre.
Un’autobiografia forte per i temi trattati, una lettura necessaria per capire come i rapporti familiari possano essere estremamente tossici. Come un genitore possa imporre ad un figlio cose che non vuole facendole passare per il suo bene. Come chi ti dovrebbe volere più bene al mondo, tutelandoti, possa diventare il tuo peggior nemico, per assecondare un proprio desiderio senza nessuna remora o senso di colpa.
Un colpo al cuore
Sono contenta che mia madre è morta di Jennette McCurdy [I’m Glad My Mom Died 2022] – Mondadori (2023)– traduzione di Matteo Curtoni e Maura Parolini – pag. 379