Non so proprio come questo libro sia finito nella libreria dei miei figli, sarà per la copertina che vede rappresentati una serie di animali antropomorfizzati e che mi ha spinto a credere si trattasse di un libro per bambini/ragazzi. E proprio per questo mi sono ritrovata a leggere Quelli che però è lo stesso di Silvia Dai Prà con Filippo.
E nonostante l’iniziale sconcerto alla fine sono rimasta soddisfatta di averlo letto con lui, perché mi ha permesso di parlargli di tanti argomenti del nostro recente passato che spesso passano totalmente sotto silenzio sia nei programmi scolastici sia nelle conoscenze generali, ma che spiegano il nostro presente ed è giusto conoscerli.
Silvia Dai Prà, in una sorta di autobiografia ironica e al tempo stesso amara, racconta la sua esperienza di insegnante precaria in una scuola professionale serale ad Ostia. Siamo quindi nella periferia di Roma, siamo in un ambiente di destra, quello raccontato da Pier Paolo Pasolini nei suoi romanzi e in particolare nei Ragazzi di vita, che più volte viene richiamato e citato nel romanzo. L’autrice evidenzia più volte il contrasto tra la giovane professoressa di sinistra, piena di entusiasmo, che crede nel potere della cultura, nella possibilità di cambiamento, a cui stanno a cuore i casi disperati, seppur consapevole che è non è lì per salvare la vita a nessuno, e classi di ragazzi che invece le esprimono tutto il contrario. Perché l’ambiente che li circonda, la reale mancanza di alternative, la necessità di trovarsi un lavoro, l’ideale di far soldi facili, i messaggi che vengono veicolati dalla televisione, dai reality sono molto più efficaci e reali di qualunque altra cosa.
Infondo la descrizione della gita di classe a Montecitorio, con l’insegnante terrorizzata di vedere la calata dei barbari in parlamento e la scena indecorosa a cui invece assistono in aula è la sintesi emblematica e perfetta di questo libro.
Odio le scene emblematiche e questa me la risparmierei perché è facile pensare che un ragazzino che cresce all’Idroscalo non possa più restare deluso da niente, ma soprattutto, perché non avrei mai creduto che parole come patria e democrazia, costituzione e repubblica, potessero davvero penetrare dentro di loro e costruire la fiducia in questa buffonata che si chiama seconda repubblica.
I ragazzi a cui fa lezione la protagonista, al di là degli scontri politici, le continue risse, le zuffe che spesso finiscono a coltellate, il dare all’immigrato, il lottare con il ragazzo di sinistra, vorrebbero un modello alternativo a cui aspirare, ma non c’è nessuno che sia capace, o abbia voglia, di darglielo. Ragazzi che comunque ci provano, anche se non sanno scrivere in italiano, buttano giù temi sgrammaticati e scorretti, fanno interrogazioni senza capo né coda, ragazzi che leggono i libri consigliati dall’insegnate anche se li trovano cupi e deprimenti. Ragazze che non usano nessun metodo contraccettivo e che sono a scuola ma protrerrebbero non esservi più l’anno dopo perché la probabilità che rimangono incinte è altissima. Ragazzi dai nomi esotici italianissimi, ma anche ragazzi dai nomi italiani che vengono da paesi lontani. Per chi ha nazionalità diversa, l’ulteriore carico derivante da una lingua differente e da una cultura comunque malvista ed estranea.
Quello che che però è lo stesso racconta proprio lo smarrimento di un’insegnate desiderosa di rappresentare una svolta, “un’ingenua ragazzotta di provincia, ridicola Pollyanna, che pensa di curare l’orrore con qualche iniezione di autostima e un paio di poesie di Giovanni Pascoli” e invece sbatte contro la realtà in cui sono immersi i suoi allievi. E’ la descrizione di un anno scolastico, con la suddivisione in tre parti: primo secondo e terzo trimestre. Un anno in cui si alternano compiti in classe, interrogazioni, verifiche, consigli di classe, consigli dei docenti straordinari per stabilire note e sospensioni agli studenti che si sono macchiati di mancanze di rispetto o atteggiamenti denigratori.
Uno spaccato della scuola italiana: dal professore che fa il commercialista e quindi a scuola non si presenta mai, a chi ha la 104 perché ha genitori anziani e non perde occasione per ribadire che non dovrebbe nemmeno essere li; dal professore che ha fatto del proprio lavoro una sorta di missione sociale, alla mega direttrice che ricorda nemmeno tanto velatamente il mega direttore di Fantozzi con studio extragalattico che esercita al massimo il suo potere.
E tra le pagine scorrono i tatuati nazisti ultra palestrati delle borgate romane, Nadjette, la ragazza marocchina che «ha una luce diversa negli occhi rispetto alle Sheila e alle Manila, e che è l’unica veramente libera», Tomas che fa a botte con la madre perché non vuole che il figlio vada a scuola, la meglio gioventù che ha già impresso il marchio della condanna di cosa diventerà…
La giovane protagonista, la cui vita scorre tra stipendio ridicolo e lunghe ore trascorse in macchina per raggiungere Ostia da Pigneto dove vive, oscilla tra la speranza di rappresentare un vero cambiamento per i suoi studenti, ostinandosi a fargli sviluppare una coscienza critica, a farli ragionare con il proprio cervello, e la consapevolezza che il destino di quei ragazzi, le loro scelte di vita sono già scritte.
Silvia Dai Prà regala un affresco veritiero della realtà delle scuole di periferia e lo fa con humour, senza retorica e senza dare la colpa ai soliti noti. Non ha soluzioni da offrire e sa perfettamente che il suo lavoro per quanto fatto con grande impegno e passione è destinato a “sparire come lacrime nella pioggia”.
Quelli che però è lo stesso di Silvia Dai Prà – Editori Laterza – Contromano (2011) pag. 162