E’ difficile pensare al carcere, alla situazione di chi tra quattro mura deve vivere, o meglio sarebbe dire sopravvivere, con poche possibilità di rimettere in piedi la propria vita e ricominciare, “rieducandosi”, come in realtà vorrebbe la norma.
Impossibile immaginare, se non si è provato, cosa significa varcare i cancelli di un carcere, passare un primo controllo, aspettare che la porta dietro di te si chiuda, per poi passare al successivo e così via. Una lunga serie di cancelli chiusi, per ritrovarsi in un luogo con le sbarre alle finestre e l’impressione che l’aria si sia come rarefatta, e di conseguenza si faccia più fatica a respirare.
Lorenzo Marone, con grande sensibilità cerca di fare entrare i suoi lettori nella realtà del carcere, o meglio in quello degli ICAM (Istituti a custodia attenuata per detenute madri), luoghi che mantengono una parvenza di normalità perché a scontare la pena ci sono madri con figli minori, che non hanno nessun altro a cui essere affidati e nessun luogo diverso dove andare. Bambini piccoli, spesso neonati, a cui deve essere garantita un’esistenza dignitosa e il più simile possibile a quella che farebbero nelle loro case.
L’autore partenopeo sceglie una narrazione corale per accendere il riflettore sulla realtà di questi istituti e raccontare non solo l’esperienza delle madri imprigionate, spesso vittime degli uomini che dicono di amarle ma che in realtà le sfruttano e non esitano a metterle nei guai con la giustizia, ma anche quelle dei bambini che queste madri accompagnano e finiscono per fare una vita diversa e marginale rispetto ai loro coetanei, mettendole a confronto con le voci delle guardie carcerarie, dei volontari e delle psicologhe. Narrazione che permette di allargare la visione d’insieme, ma che ha il limite, unico eventuale difetto di questo libro, di un’eccessiva frammentarietà del racconto, per cui alcune storie vengono lasciate indietro, alcune restano aperte, senza conclusione, con un finale che spetta al lettore scrivere nella propria immaginazione.
Al centro della scena c’è Diego, nove anni, un “corpo goffo” e “l’affanno perenne in petto” e un desiderio immenso di sentirsi accolto, apprezzato, amato.
A Napoli Diego s’era sentito piccolo e di cartapesta, fragile nonostante la mole, quel corpo goffo che ora non gli dava problemi gli era nemico, i piedi a papera, gli occhiali, la pancia, i capelli del colore sbagliato, l’affanno perenne in petto, erano mine che innescavano la ferocia delle bestie. La scuola gli aveva inciso ferite profonde che sanguinavano per un niente, lì aveva imparato il degrado, l’umiliazione, l’omertà.
Accanto a lui Miriam, sua madre, una donna che vive di sottrazione, dalla bellezza rovente, diffidente e risoluta, che si è cucita addosso una corazza per evitare che la vita la calpesti ancora e che vorrebbe un figlio più determinato, sicuro. Il suo essere debole lo rende vittima ideale nel quartiere da dove vengono. E proprio per questo, nonostante l’amore che prova, è incapace di far sentire quel sentimento al figlio.
E le carcerate: Anna solare e chiacchierona con la figlia Jennifer; Amina, nigeriana, convinta di trovare in Italia il luogo giusto per una vita diversa e che si ritrova invece con due figli Gambo, Adamu, avuti da chissà chi e il solo desiderio di ritornare nella sua patria; Dragana, vittima e carnefice allo stesso tempo, e la piccola Melina, una bambina di cinque anni dalle gambe che non la reggono, una madre malata e un piccolo quaderno pieno di parole, che caccia come farfalle, unico conforto e auspicio di un futuro che immagina in una fattoria piena di verde e di animali.
Intorno a loro Greta, la psicologa, anche lei con le sue pene da portare, mentre ascolta quelle donne chiuse, e tenta di istillare in loro un po’ di speranza, un po’ di spirito di rivalsa; Miki la guardia carceraria che trova nella velocità il modo di sopportare un’esistenza che non gli ha dato nulla; la burbera Tilde che cerca di costruire un futuro diverso per i suoi figli.
Per tutti la necessità di superare le barriere create dalla diffidenza, dalle esperienze dolorose e violente di cui ognuno di loro è reduce, di creare un mondo che possa rappresentare uno spiraglio di luce per quelle madri e i loro figli.
Incredibilmente in quel mondo chiuso Diego acquista sicurezza in sé stesso, si fa degli amici; trova una sorella nella dolce Melina, tutti gli vogliono bene; persino la madre si apre verso quei cambiamenti che assiste nel figlio, ma l’età di Diego è una spada sulla testa, quanto potrà rimanere in quella struttura prima che chi di dovere decida che è giunto il momento per lui di tornare alla vita normale?
Pur essendo ambientato in un carcere, tra quattro mura chiuse e sbarre alle finestre, Le madri non dormono mai è una potente riflessione sulla libertà.
– Già hai ragione, tengo la libertà, ma per molti, la libertà è la facoltà di scegliere le proprie schiavitù.
Perché non basta essere fuori dalla prigione liberi, per esserlo veramente. Il confronto tra chi sta scontando una pena ed è privato della libertà e chi lavora nel carcere, e ogni giorno entra e esce da quella realtà, dimostra come ognuno ha catene e inferriate che lo imprigionano e da cui non riesce ad uscire: il proprio passato, i propri incubi, i propri errori, le scelte sbagliate, l’assenza di possibilità.
Un racconto toccante che entra nella complessità di un tema difficile, di una realtà di cui è più facile chiudere gli occhi e girare la testa perché non ci riguarda, un romanzo che ci fa riflettere sulla colpa (i bimbi rinchiusi lì cosa mai hanno commesso?), sulla responsabilità, sugli affetti, sulla solidarietà che spesso lega i reietti, i deboli, quelli che dalla vita hanno ricevuto solo colpi. L’affresco di una umanità dolorosa che cerca di resistere e di trovare una via d’uscita alle proprie miserie.
Una potente denuncia ad un sistema, quello carcerario, che può e deve essere migliorato, soprattutto quando coinvolge i più piccoli ed indifesi. Doloroso ma necessario.
- Le madri non dormono mai di Lorenzo Marone – Einaudi Stile Libero (2022) – pag. 352