Torno dopo poco tempo a rileggere Isabel Allende in un romanzo storico in cui la ricostruzione dell’epoca si sposa e si interseca con le appassionanti vicende dei protagonisti.
Siamo a Santo Domingo, dove colmo di ideali – non per nulla siamo in pieno Illuminismo e le idee di Rousseau, Diderot, Montesquieu, sull’uguaglianza sociale, spopolano – giunge il giovane francese Toulouse Valmorain, arrivato sull’isola caraibica per vedere che fine ha fatto il padre. Trova una tenuta allo sbando, gestita da pessimi amministratori e la sua idea di fermarsi giusto il tempo di raddrizzare la situazione si scontra con una realtà che a poco a poco lo costringe ad immergersi nella gestione della piantagione di canna da zucchero.
Interessante come il giovane Toulouse arrivi sull’isola senza nessuna cognizione di causa, non ha idea né che le ricchezze della famiglia dipendono dalle coltivazioni sull’isola, né del trattamento subito dagli schiavi utilizzati per la coltivazione, né tantomeno del destino avuto dagli originari abitanti dell’isola, i pacifici arahauco. Un popolo mite, che non si sentiva padrone della terra che coltivava e non era stato in grado di difendersi dalle aggressioni nemiche. Massacrati dagli invasori, in meno di cinquant’anni erano stati decimati tutti a causa della schiavitù, delle malattie portate dai bianchi e dai suicidi. Nonostante le idee blandamente liberali, Valmorain non disdegna la schiavitù, accetta di buon grado l’idea dominante all’epoca che i neri, importati dall’Africa non siano umani, ma siano bestie il cui destino è quello di lavorare per i bianchi, sopravvivendo in condizioni tremende. E dentro di sé si sente comunque migliore di tanti altri proprietari dell’isola, reputandosi un padrone giusto, che non infierisce più di tanto e commina meno punizioni degli altri.
«Non mi piace la schiavitù, glielo assicuro, e ancora meno mi piace vivere qui, ma qualcuno deve pur amministrare le colonie perché possa addolcire il suo caffè e fumare una sigaretta. In Francia fanno uso dei nostri prodotti, ma nessuno vuole sapere come si ottengono. Preferisco l’onestà degli inglesi e degli americani che accettano la schiavitù con senso pratico.»
L’isola sotto il mare è, però soprattutto la storia di Zaritè, chiamata anche Tetè, una schiava cresciuta ad Haiti e comprata da Valmorain come cameriera personale della moglie spagnola, Eugenia. Una ragazzina cresciuta all’ombra di Honorè, uno schiavo che l’ha sempre protetta e coccolata come una figlia. Fiera ed intelligente, sotto l’aspetto apparentemente modesto, Zaritè rimarrà legata al padrone per tutta la vita. Costretta ad essere una sorta di concubina, a veder scomparire i propri figli, a trasferirsi in Louisiana a New Orleans quando la situazione nell’isola caraibica diventerà talmente incandescente da essere rischioso rimanervi, Tetè affronterà ogni genere di prova, perderà il suo primo grande amore, eroe dell’indipendenza dell’isola, subirà l’odio della seconda moglie di Valmorain e rivendicherà la propria libertà, ottenuta per aver aiutato l’uomo a salvarsi. Sarà anche una madre affettuosa ed attenta per il figlio di Valmorain e Eugenia.
L’isola sotto il mare è l’affresco romanzato della rivolta degli schiavi contro i colonizzatori bianchi per ottenere libertà e dignità. All’epoca l’isola era divisa in due parti, una parte spagnola l’altra francese. La colonia francese aveva una popolazione composta da tre diversi gruppi etnici: gli europei che detenevano il controllo politico ed economico, la “gens de couleur” (individui liberi e di sangue misto di cui la metà mulatti, definibili come classe sociale di status inferiore) e infine gli schiavi africani (che venivano continuamente portati dal continente nero dato che l’aspettativa media era di 4 – 5 anni, a causa delle terribili e brutali condizioni di vita che impedivano anche la naturale crescita della popolazione). Infine vi erano quelli noti come cimarroni (dal termine inglese maroon): ex-schiavi sfuggiti ai loro padroni, che avevano tentato di rifarsi una vita libera rifugiandosi nelle terre più elevate.
Alla fine del settecento il vento della Rivoluzione Francese era arrivata anche sull’isola dove la “gens de couleur” cominciò a fare pressione sul governo coloniale per ottenere maggiori diritti. L’Assemblea concesse i diritti politici a tutti i mulatti e i neri nati liberi, senza tuttavia mutare lo status di coloro che erano ancora schiavi. Per questo i cimarroni guidati da Toussaint Louverture iniziarono una rivolta che si estese ben presto anche agli schiavi, che misero a ferro e fuoco le piantagioni, e alla “gens de couleur”, a cui il governo spaventato, aveva revocato i diritti concessi. Louverture proclamò una costituzione per Santo Domingo che stabiliva la sovranità dei neri sullo stato con l’abolizione perpetua della schiavitù. In risposta, Napoleone Bonaparte inviò un corpo di spedizione militare di soldati francesi e navi da guerra sull’isola, guidato da suo cognato Charles Leclerc, per restaurare appieno il governo francese su Santo Domingo. L’idea era di rovesciare il governo di Louverture e ristabilire la schiavitù. Nonostante la cattura di Toussaint, che morì poi in una prigione francese, altri comandanti, tra cui Jean-Kacques Dessalines e Henri Christophe ricominciarono a combattere e aiutati da un’epidemia di febbre gialla che decimò i francesi riuscirono a sconfiggerli. Nel 1804 l’ex colonia dichiarò la sua indipendenza, divenendo così il secondo paese del continente americano a dichiararsi indipendente, dopo gli Stati Uniti d’America.
E Saint-Domingue venne ribattezzata Haiti in ossequio alla popolazione degli arauachi, i quali chiamavano l’isola Ayiti (in lingua Harawak significa “aspro”, riferito al territorio).
Questi avvenimenti storici sono inseriti sapientemente nella narrazione. La scrittrice cilena, oltretutto, è estremamente abile a raccontare il viaggio sulle navi negriere, la brutalità dei commercianti di schiavi e poi dei sovrintendenti delle piantagioni, le miserabili condizioni di vita, le continue violenze, i soprusi di uomini e donne condannati allo sfruttamento solo per il colore della pelle. Riproducendo un affresco realistico di questo periodo storico e raccontando la nascita dei riti vudù, la differenza di temperamento di chi nasceva in schiavitù da chi arrivava dall’Africa, nato libero e incapace di adattarsi a trascorrere la propria esistenza sfruttato, lontano dalla propria terra, dalla propria famiglia, dagli usi, dalla religione dei propri avi, e l’atteggiamento degli europei che consideravano gli africani esseri inferiori, appartenenti ad una specie diversa e come tale simili alle bestie da sfruttare a proprio piacimento.
«I neri hanno la costituzione adatta per i lavori pesanti, sentono meno il dolore e la fatica, il loro cervello è limitato, non sanno discernere, sono violenti, disordinati, pigri, sono privi di ambizione e di sentimenti nobili.»
A rendere affascinante il romanzo vi è anche la carrellata di personaggi straordinari, come ci ha abituati la Allende: da Padre Antoine, accogliente e aperto (Dio è unico, comunque lo si chiami o lo si invochi); al dottor Parmentier, in conflitto tra le idee liberali e una moglie nera che nasconde; da Don Sancho, l’hidalgo spagnolo pieno di vita e di entusiasmo, alla bellissima e vivace Violette Boisier e la sua inseparabile e fedele Loula; dalla misteriosa e capacissima curatrice Tante Rose, al vile Toulouse Valmorain; dalla povera Eugenia alla terribile Hortense Guizot, dallo spietato sovrintendente Cambray, al timido Maurice… fino alla protagonista Zarité la cui vita è il fil rouge che unisce e intreccia fatti e personaggi.
L’isola sotto il mare di Isabel Allende [La Isla Bajo El Mar 2009] traduzione di Elena Liverani Feltrinelli (2009), pag. 426