In una narrazione in cui si alternano passato e presente, Saif ur Rehman Raja racconta in Hijra la sua storia con coraggio e fierezza.
Saif nasce in Pakistan, a Rawalpindi, primogenito a cui viene dato un nome importante che significa “La spada di Allah”. Colui che ama la giustizia, colui che non la teme, colui che alza la voce per essa. Un nome pesante, pieno di responsabilità. I suoi primi nove anni passano circondato dagli affetti in quella casa dal tetto che permette di osservare l’esterno, in quel salotto che somiglia a un’agorà. Sempre accanto alla madre, che lui adora, che accetta di insegnarli a cucinare, con cui impara a mescolare le spezie, a comprenderne il potere.
Tutto questo si spezza quando la madre, per problemi di cuore decide di raggiungere il padre che, già da anni vive in Italia, con i due figli più piccoli. I soldi per tutti non ci sono e qualcuno deve restare. Saif è il figlio maggiore, quindi tocca a lui sacrificarsi.
“Cosa significa che devo sacrificami, amma? Me lo dicono tutti, ma io non capisco.”
“Sacrificio, figlio mio, a volte significa lasciare il posto. È un dovere dei primogeniti.”
Saif si sente solo, abbandonato da tutti, soprattutto da sua madre, la sua amma, perché anche se è il primogenito, lui ha soltanto nove anni, troppo pochi per essere allontanato dai suoi legami più stretti. Soltanto due anni dopo raggiungerà la sua famiglia in Italia, a Belluno, e verrà al mondo per la seconda volta. Il suo primo incontro con la città veneta non è delle migliori, Belluno è circondata dalle montagne, l’orizzonte non è libero come a Rawalpindi, si sente soffocare. Qui il mondo è alla rovescia: la pioggia non è un dono che mette fine al caldo afoso e soffoca la polvere delle strade, ma una presenza costante che mette di malumore e fa festeggiare la comparsa del sole.
Ma è soprattutto l’impatto con la scuola, che non lo accoglie, non lo aiuta, lo fa sentire diverso e sbagliato e intanto lo giudica, lo rende responsabile non solo delle proprie azioni ma anche di quelle di tutti i suoi connazionali.
La gente mi fa sentire addosso il peso della responsabilità: se Filippo ruba una caramella, la ruba lui e basta. Se la rubo io, la rubiamo noi pakistani, tutti. Filippo fa una cazzata ed è una ragazzata, mentre io, che sono pakistano, sono così di natura: un ladro. E’ tipico di noi.
Il dover imparare la lingua, ma pure tutta una serie di regole non scritte, di comportamenti da seguire, sentendosi costantemente giudicato, messo sotto esame e fondamentalmente mai assolto.
Esemplare il racconto della pronuncia del suo nome. Un nome continuamente storpiato in Italia: non si pronuncia Saif, si pronuncia Sef. Eppure ogni volta che lui corregge la pronuncia sbagliata vi è uno sguardo come di compatimento, cosa cambia infondo? Crescendo diviene l’espediente che lo aiuta a comprendere di chi può fidarsi e chi non merita alcun interesse, così «divido il mondo in due categorie di persone: chi pronuncia male il mio nome e mi chiede scusa quando lo correggo, e chi non lo fa. Questi se ne fregano. A loro non do nessuna possibilità».
E Saif cresce spezzato: non abbastanza italiano, ma neanche abbastanza pakistano. I nonni in Pakistan che lo chiamano “nipote italiano”, ma i compagni di scuola in Italia lo gli rinfacciano continuamente la sua origine.
Difficile trovare un modo per definire la propria identità quando le radici si spezzano, le culture si mescolano, e nessuno sembra accettarlo completamente.
A questo si unisce sessualità dello scrittore, il suo bisogno di esprimere la propria femminilità, ma riconoscere e rivelare la propria omosessualità rischia di spezzare l’unico legame davvero profondo, quello che non l’ha mai abbandonato: il rapporto con amma Shakeela. Suo padre lo definisce “Hijra”, termine che in India e Pakistan indica il terzo sesso, i transessuali o trasgender, un termine generalmente considerato dispregiativo in urdu.
Hijra è un romanzo forte, scritto in una lingua fluida, frammentata, composta da frasi brevi e dirette, una lingua in cui si mescolano la sintassi breve e concisa dell’urdu con la complessità della grammatica italiana.
Un libro totalmente nelle mie corde che tocca argomenti che amo sviscerare: la difficoltà enorme di sentirsi a metà tra due paesi che ti considerano entrambi come estranei, l’atteggiamento di superiorità che permea la nostra cultura. Un paese dove razzismo e razializzazione, cioè senso di superiorità della razza bianca rispetto a tutte le altre, imperversano. Dove non si è disposti ad accogliere, dove spesso non si ha la curiosità, o l’apertura mentale per capire che esistono altre culture, altre lingue, altri cibi, che non sono migliori o peggiori dei nostri, solo diversi. Che basta assaggiare, provare, ascoltare per scoprire nuovi sapori, nuovi storie, nuovi suoni e ricavare da tutto ciò un arricchimento. Perché come giustamente conclude Saif ur Rehman Raja, alla fine lui è riuscito ad appropriarsi della sua vita, a mettere insieme tutti i pezzi scomposti che lo caratterizzano, a riabbracciare tutte le sue anime e tutti i suoi affetti, e a dimostrare che il futuro appartiene ai meticci, ai bastardi.
Un romanzo necessario per aprire gli occhi, per vedere e cercare di comprendere le difficoltà di chi vive spezzato in due, mai pienamente accolto, sempre giudicato, sempre soppesato.
Io non sono pakistano.
Io non sono italiano.
Io sono altro.
Io sono oltre.
Un ibrido.
Che ama esserlo.
La mia egira.
Prenderò le vostre purezze e le sporcherò di nuove possibilità incerte.
Io sono contaminato.
E sono in armonia.
“Hijra di Saif ur Rehman Raja – Fandango libri (2024) – pag. 226