Americanah è un corposo romanzo in cui si intrecciano le vite di due giovani nigeriani Ifemelu e Obinze. Il loro incontro, il loro amore, la loro separazione, il loro successivo rincontro, i loro trasferimenti negli Stati Uniti e in Inghilterra per realizzarsi. Centrale però è la capacità della scrittrice di dare un significato più profondo a tutto quello che narra, di inserire la storia d’amore in un discorso sulla razza e sul razzismo, visto da più angolazioni e da diverse prospettive che rende la lettura stimolante e apre parecchie riflessioni.
“Negli ultimi mesi aveva cominciato a sentirsi sazio di quanto aveva acquisito – famiglia, case, conti in banca – e ogni tanto era colto dalla tentazione di prendere uno spillo e bucare tutto, sgonfiare tutto, per essere libero. Non sapeva più, in realtà non avevo mai saputo, se la sua vita gli piacesse sul serio o se gli piacesse perché era così che doveva essere.”
Il romanzo inizia nel salone di una parrucchiera e l’elemento capelli, come è emerso in tanti altri romanzi e libri scritti da africani o afrodiscendenti, è un elemento di non poco conto. I capelli che l’estetica occidentale vuole lisci e serici sono un cruccio, un tormento e un dilemma per le perso-ne di colore: i liscianti, le “waves”, che negli ambienti della middle class, la fanno da padrone, le treccine, i trattamenti tortura che bruciano e devastano il capello, i tagli drastici, le acconciature afro, hanno un ruolo determinante e rappresentano una chiave di lettura del romanzo (come suggerisce la copertina dell’edizione keniota). In quel salone Ifemelu, mentre le fanno le treccine che tengono in ordine i capelli crespi, ripensa alla sua vita, dall’infanzia con i genitori all’amore per Obinze fino agli ultimi tredici anni passati negli Stati Uniti, la nascita del suo blog, fino alla scelta di tornare a casa in Nigeria.
Nello scorrere dei ricordi legati all’infanzia di Ifemelu in Nigeria emergono i vari membri della sua famiglia. La personalità appassionata e fiera della madre, orgogliosa di se stessa e dei suoi bellissimi capelli, così diversi da quelli della figlia, che cambia improvvisamente quando inizia a frequentare varie chiese e predicatori che la esortano a mortificare il suo aspetto e la sua personalità per ottenere grazia, fino a cambiare e spegnersi. La “fede” del padre nello sviluppo e nelle potenzialità della Nigeria che però collassano quando viene licenziato per essersi rifiutato di chiamare “mamma” il suo capo.
L’adorata zia Uju esuberante e piena di vita, laureata in medicina e amante di un potente generale, che le fa fare una vita da regina, ma quando quest’ultimo muore è costretta ad abbandonare il paese e andare negli Stati Uniti anche per difendere il figlioletto Dike.
In parallelo scorre la vita di Obinze, la madre professoressa, la vita borghese. Innamorato da sempre degli Stati Uniti di cui conosce musica, romanzi, modi di dire, dove sogna di trasferirsi per assaporare il sogno americano, un sogno destinato ad infrangersi contro l’impossibilità di ottenere il visto.
Entrambi appartengono alla categoria di emigranti colti che abbandonano il loro paese non per fame e neppure per motivi politici, ma per sfuggire all’immobilismo, all’assoluta mancanza di scelte, ai continui scioperi che bloccano l’università. Ma per entrambi la vita tanto decantata e sognata all’estero si rivela ben presto una chimera. L’America per Ifimelu non è come gliel’ha raccontata Obinze, la difficoltà di trovare un lavoro, il doversi adattare, le umiliazioni di accettare compromessi per poter pagare l’affitto, fiaccano la sua determinazione, la fanno cadere in depressione. E il loro amore non regge, non tanto alla distanza, quanto al peso del non detto, di tutto ciò che è impossibile raccontare per telefono quando ci sono oceani e continenti che dividono.
La vita va avanti per entrambi anche se Obinze non capisce perché Ifimelu lo ha completamente esautorato dalla sua vita.
Obinze andrà in Inghilterra, dove per ottenere un permesso di soggiorno, cercherà di contrarre un matrimonio combinato, si troverà a lavorare con la tessera dell’assistenza sociale di un altro a cui però deve cedere metà della propria paga, fino ad un umiliante e definitivo arresto ed espulsione dal paese.
Ifimelu si metterà prima con Curt bianco, bello, ricco, sempre pronto a soddisfare qualunque suo desiderio poi con Blaine professore afroamericano radical chic. Prima intenzionata ad adattarsi, tramite l’imitazione della lingua, della cadenza, dei capelli, dell’abbigliamento per essere accettata, poi decisa a riappropriarsi delle proprie origini: di non imitare più l’accento americano, di portare i capelli naturali, di essere pienamente se stessa nella consapevolezza che non c’è nulla di sbagliato in lei.
Se le vicende di Ifimelu e Obinze e la voglia si scoprire se prima o poi i due si rincontreranno e chiariranno i conti in sospeso rendono interessante il romanzo, sono soprattutto le riflessione che Ifimerlu fa confluire nel suo blog a rendere il romanzo davvero intrigante e stimolante.
Il razzismo dissimulato, le differenze tra africani e afrodiscendenti, la ignara condiscendenza dei bianchi quando si relazionano con le persone di colore, la strisciante sensazione di non essere mai abbastanza, il dover sempre dimostrare qualcosa, di meritare quello che ha raggiunto, di sentirsi diversa, perché donna, straniera, immigrata, nera, unita all’osservazione di piccoli episodi mai eclatanti ma sempre presenti, sono al centro del blog che Ifemelu crea.
Razzabuglio sottotitolato “osservazioni sui Neri Americani (un tempo conosciuti come ‘negri’) da parte di un Nero Non-Americano” è il blog in cui la protagonista riversa la sua esperienza di osservatrice della razza. Una pagina dove affronta in modo critico, diretto e brillante la tematica del razzismo negli Stati Uniti e attraverso cui dà voce alle sue riflessioni, ai suoi pensieri e anche alle sue critiche sulla società americana vista dal punto di vista di quella che continua ad essere, anche a distanza di decine di anni dalla fine delle leggi razziali, la questione per eccellenza nei rapporti tra bianchi e neri. Come nota ad un certo punto l’autrice, la parola razzismo disturba ma non per questo il problema non esiste più, vogliamo ridefinire il concetto più gentilmente e ipocritamente con “sindrome di disordine razziale”?
Sono le riflessioni di una donna nera rispetto al “colore della pelle”, tutte quelle microviolenze che subisce giornalmente, dall’impossibilità di trovare cerotti, calze o medicazioni “color carne”, ai fondotinta che hanno dieci tonalità chiare e una sola generica marrone per tutte le nere, come se ci fosse un unico colore e non infinite sfumature della scala cromatica, dalle riviste di moda in cui è difficile trovare modelle simili a se stesse in cui rivedersi, ai problemi di come gestire i capelli. E questo porta la protagonista a sentirsi diversa. Lei si sente nera per la prima volta solo una volta messo piede negli Stati Uniti, perché il colore della pelle è ancora un’innegabile barriera, come lo è la classe sociale nell’Inghilterra in cui si trova a vivere Obinze.
Chimamanda Ngozi Adichie ha l’innegabile capacità di unire temi complessi con uno stile di scrittura molto fresco e scorrevole, di toccare temi universali, come il senso di fallimento, o la difficoltà a riconoscersi in certe scelte, in cui tutti possiamo riconoscerci, ma ha anche il grandissimo pregio di sviscerare chirurgicamente cosa vuol dire subire discriminazione e farlo in modo ironico, mai drammatico, mai pesante o pedante. Si intuisce che che la voce che sentiamo dietro quella di Ifemelu è quella dell’autrice stessa, gli episodi che racconta fanno probabilmente parte del suo vissuto, delle esperienze che ha vissuto sulla sua pelle o a cui ha assistito direttamente. Il suo è uno sguardo acuto e penetrante sullo stato delle cose, se ne esce arricchiti e sicuramente più consapevoli.
Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie – Einaudi Super Et (2015) – traduzione di Andrea Sirotti – pag. 501