I Moschettieri senza D’Artagnan

Un salto. Immortalato in una fotografia in bianco e nero. Quattro ragazze che si sollevano da terra nello stesso momento, riprese dall’autoscatto in una vecchia fabbrica di tessuti abbandonata.

E ora mi ritrovo davanti a questa fotografia e osservo il nostro salto colto dalla macchina fotografica di mia madre, una macchina che serbò i suoi segreti per sempre e consentì alla nuova proprietaria di strappare tanti altri momenti magici alla fugacità dell’esistenza. Vedo tutte noi – tranne Ira – ridere senza sospetti sul futuro in cui saremo atterrate appena i nostri piedi avessero toccato terra

E’ una delle tante foto appese alle pareti di una mostra fotografica allestita a Bruxelles che celebra gli scatti di Dina Pirveli.

E davanti a quelle foto, che immortalano pezzi di vita, oltre che tanta storia della Georgia, ci sono le amiche di quell’artista. Qeto, custode dei segreti delle altre, restauratrice quotata che avrebbe bisogno di restaurare se stessa, Ira brillante ma rigida avvocatessa e Nene eccentrica e sempre sopra le righe, immersa nelle sue relazioni sentimentali. Tre amiche che ormai non si vedono più, si sentono ogni tanto solo per gli auguri di rito, divise da tutto quello che è successo, dalle incomprensioni, dal non detto e soprattutto dalla morte di Dina.

Perché loro quattro erano come i moschettieri del Re, ma senza D’Artagnan cosa ne sarebbe di Porthos, Athos ed Aramis?

Sala dopo sala, foto dopo foto, emergono volti, storie, tragedie: la bellezza da Biancaneve di Saba, l’avventatezza di Rati, le contraddizioni di Levan, la spudoratezza di Zotne, la follia di Anna, la dolcezza di Guga, ma anche la devastazione della guerra, le macerie, le mutilazioni, occhi spenti e visi bagnati di lacrime.

Tocca a me saperlo, sono io che aggiorno le mappe e il diario di bordo. Sono la memoria di tutte e tre, nella mia testa ho creato un archivio in cui ogni testimonianza è a portata di mano se serve, è la punizione che mi sono imposta. Nessuna sciagura, nessuna tragedia, nessuna disfatta viene cancellata da lì e condannata all’oblio.

In un continuo flashback per cui ogni foto riporta alla luce un ricordo, seguendo Qeto, voce narrante, veniamo immersi nell’atmosfera di Tiblisi, nella sua luce, nella sua vita e in quella di quattro amiche cresciute insieme. Quattro ragazze diverse accomunate dal vivere nella parte alta di una città fiorita di melograni, nello stesso cortile di vicolo delle Vigne, e dall’essere entrate nell’orbita della più audace, Dina, soprannominata Mangiafuoco, coraggiosa, curiosa, ma anche profondamente retta. Dina, autentica, ribelle, anticonvenzionale, è un fuoco che brucia; sceglie, sempre e comunque, il bene sul male perché “chiudere gli occhi è come morire”, anche testimoniando con i suoi scatti l’orrore della guerra.

E’ lei che, come il sole, attrae nella sua orbita le altre: la frivola, ingenua, esuberante, ottimista Nene, sempre in fuga da una famiglia soffocante; la timida, pragmatica, disciplinata e segretamente innamorata di Nene, Ira; e soprattutto Qeto. La sua adepta più fedele, quella sempre pronta a lanciarsi nelle imprese e nelle avventure organizzate da Dina. Qeto cresciuta senza madre, con un padre assorbito dai suoi studi e dalla sua passione per la fisica, due nonne profondamente diverse ma intimamente uguali e un fratello che vede nella contrapposizione a tutto la sua ribellione. Qeto è colei che è sempre in bilico, che cerca di trovare una mediazione in tutte le contraddizioni della vita, che non accetta il disfacimento, la fine delle cose, ma che spesso, nonostante i sacrifici, e la sofferenza, anche auto inflitta, non ha potere sulla scelte degli altri.

«Il nostro paese non è stato buono con te, non lo è stato con nessuno ma con te è stato tragicamente cattivo. Però tu hai ancora un futuro, Kipiani, e per quel futuro devi lottare. Anche perché non puoi salvare nessuno, né tuo fratello né i tuoi amici. Ognuno di noi è responsabile di sé stesso, anche sacrificandoti non puoi aiutare nessuno. Te l’ho già detto, i sacrifici sono inutili, portano solo a ulteriori sacrifici. Pensa a te, invece, pensa a tutto quello che puoi imparare e fare. Potresti avere una bella vita.»

La vita delle quattro amiche è sconvolta dagli avvenimenti del 9 aprile 1989 quando una manifestazione antisovietica è soffocata nel sangue, con decine di morti. Da quel momento tante cose cambieranno e la loro vita non sarà più la stessa. Perché tra le settecento pagine di questo maestoso e possente romanzo scorre la storia recente della Georgia dal 1989 al 2018. La Georgia pagherà a caro prezzo la sua voglia di indipendenza: colpi di stato, spargimenti di sangue per le sue strade, mancanza di corrente elettrica, razionamento di cibo. Un paese che dopo il crollo dell’Urss, e l’illusione di aver guadagnato autodeterminazione e libertà ha vissuto dieci anni tragici, attraversando una crisi enorme: dal conflitto etnico in Abkhazia, sostenuto dalla Russia e sfociato in una guerra, alla grave crisi economica, con crollo dei mercati, scontri tra gruppi politici, intervento di fazioni militariste. Un periodo di grande caos, in cui gruppi politici diversi, con grandi ideali per un futuro migliore lottano per affermarsi e dove, come sempre in situazioni di anarchia, la criminalità si è infiltrata per ottenere potere e soldi, in un inferno di violenza, droga, alcool. Un periodo e un luogo, in cui, oltretutto, vige ancora un sistema patriarcale e brutale dove le donne sono le prime vittime.

E’ in questo contesto che si sviluppa la storia di quattro amiche che in questo disordine crescono, cercano di trovare un proprio spazio nel mondo e ne vengono comunque risucchiate perché la violenza le travolge.

Un trama complessa ed intrecciata, perché accanto alle vite delle quattro amiche ci sono quelle delle loro famiglie, dei loro amici, di chi hanno amato e perduto. Ogni storia è come il seme di altre cento, in una innegabile e grandiosa capacità dell’autrice di riuscire a tenere insieme le infinite fila della storia che racconta, le pagine dedicate alla madre di Dina, Lika o quelle delle due Babuda, le due nonne di Qeto, sono romanzi nel romanzo.

L’autrice scrive una storia commovente, feroce, cruda, intensamente dolorosa, riuscendo a scavare nell’animo umano e a portare alla luce i demoni che in esso si nascondono, ricostruendo al contempo la storia di un paese sconvolto e avvelenato dalla violenza.

«A volte l’amore non basta, non è il rimedio per tutti i mali, non è la soluzione a tutti i problemi, non ci guarisce. Lo sai anche tu», dico, e non so perché mi giustifico in un modo così perentorio.

«Ma è esattamente quello che dovrebbe fare, e se non lo fa non è amore!» dice Nene, ed è inutile contraddirla, sta difendendo la sua ingenuità, dopotutto è quello che le ha consentito di sopportare ogni tentativo di distruggere il suo amore, di massacrarlo.

Dopo L’ottava Vita (per Brilka) che le ha dato fama, in questo secondo romanzo Nino Haratischwili si conferma una narratrice straordinaria. Se ne L’ottava vita (per Brilka) aveva raccontato con maestria e poesia la storia di una famiglia attraverso tutto il secolo scorso, intessendo il vissuto dei singoli alle vicende della nascita e caduta dell’Unione Sovietica; qui il fulcro del romanzo è l’amicizia tra quattro donne, conosciutesi da bambine sui banchi di scuola, diversissime tra di loro eppure profondamente unite, in un legame destinato a perdurare nel tempo, sopravvivendo a guerre, tradimenti e crollo dei sogni collettivi ed individuali.

Nino Haratischwili ha una scrittura viscerale, che accoglie i suoi lettori come un abbraccio, li avviluppa nella storia, li rende non solo spettatori ma attori della vicenda, tanto che alla fine pare di averla vissuta noi la storia che racconta.

Due annotazioni a margine. Ancora una volta l’importanza di leggere un romanzo che contiene un punto di vista diverso. Da europea occidentale ho sempre pensato alla Perestroika di Gorbačëv come il momento in cui l’Unione Sovietica ha avuto la possibilità di cambiare il corso del proprio destino politico e sociale. Creduto che fosse l’uomo illuminato che ha cercato di portare il proprio popolo alla libertà. Per la Russia e le altre nazioni dell’Urss, invece, Gorbačëv è sinonimo di crollo, di fame, di miseria…

Negli anni anni novanta avevo vent’anni eppure non ricordo se non come un’eco sbiadito nessuna notizia, nessuna immagine sulla guerra civile in Georgia, sulla violenza scatenatasi tra opposti contendenti. Ancora una volta la visione occidentalocentrica ha messo ai margini la storia dei popoli che ne stanno ai confini, come fossero meno importanti. E questo deve farci inevitabilmente riflettere.

La luce che manca di Nino Haratischwili, traduzione dal tedesco da Fabio Cremonesi Marsilio (2023) pag. 699

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