La necessità di essere tutti interi

Ognuno di noi vuole solo essere “visto” non guardato, né osservato, né scrutato, ma visto interamente e completamente e soprattutto senza pregiudizi. Mentre leggevo la storia di Sara e di tutti i ragazzi che la affiancano pensavo alla loro necessità di essere visti come persone, come esseri umani, ognuno con i propri sogni e bisogni, e non etichettati per il colore della pelle, per l’etnia, per il luogo in cui sono nati o vivono. Questa secondo me è la difficoltà più grande e anche l’errore che stiamo commettendo quello di partire da un colore, da uno stato, da una lingua, senza tener conto della persona che tutto ciò nasconde ed ingloba.

Tutta intera non è un libro facile, non lo è per la narrazione sfilacciata, discorsiva che a volte salta da un argomento all’altro, da un un episodio all’altro: un flusso di coscienza che mescola passato e presente, ma che, così facendo, mette ancor più in evidenza la necessità per la protagonista di trovare un nuovo equilibrio, di ricomporre l’immagine di se, che è andata in pezzi. Uno stile frammentario che rende perfettamente l’irrequietezza di Sara e la sua urgenza di raccontare.

Tutta intera racconta una storia che non è solo quella dei ragazzi di Basilici, immigrati di seconda generazione, che vivono in una sorta di ghetto, tra di loro, sempre tacciati di essere delinquenti, sempre visti con sospetto, costretti a lavorare per pochi euro e nessun diritto, ma anche quella di Sara, la protagonista, che a differenza dei ragazzi a cui insegna, è stata adottata da una famiglia bene del paese, un rinomato insegnate di liceo e l’amatissima cuoca di un asilo. Saranostra come la chiamano in famiglia, amata, viene da dire, nonostante il colore della pelle, una pelle che lei, sin dal primo, fulminante capitolo, fa di tutto per sbiancare, per rendere uniforme a chi la circonda, che fino al momento dell’incontro con quei ragazzi si è sentita intera, anche se pezzetti di disagio hanno sempre trapelato qua e là: momenti in cui avrebbe voluto un’altra reazione da parte dei genitori, discorsi ascoltati ma non compresi fino in fondo, atteggiamenti, sguardi, domande che però ha sempre nascosto nella parte più profonda di se’.

Soltanto quando affronta una classe composta da persone che le somigliano nei tratti somatici ma che in realtà “non sono come lei”, sente esplodere tutta la sua estraneità. Un’estraneità doppia: estranea da quei ragazzi perché ha avuto un’infanzia differente, perché non parla la loro lingua, il loro slang, che oltretutto non capisce, perché vive dall’altra parte del fiume nel quartiere buono della città, in una famiglia benestante, lontana da ogni disagio perché le possibilità e le occasioni che le sono state offerte sono ben diverse da quelle di chi ha davanti; ma, allo stesso tempo, estranea anche dalla sua famiglia adottiva, che l’ha cresciuta come fosse bianca, da chi taccia i ragazzi di Basilici come delinquenti, da chi fa una distinzione che nasce dal colore ma è determinata dal potere economico. Una differenza rimarcata a più riprese dai ragazzi di Basilici, che la chiamano “Signorina Bellafonte”. Persino il frutteto in cui lo zio fa il custode, per lei luogo della memoria, di pranzi di famiglia, di pesche succose da mangiare, per altri è solo un luogo di lavoro e di sofferenza dove si torna a sperimentare l’esclusione e il pregiudizio.

Tu sei andata lí convinta di dargli qualcosa e loro non la vogliono. E questo ti fa impazzire. Non accetti il fatto di non poter dimostrare che sei la piú brava.
Io non voglio dimostrare niente, voglio che sappiano che sono come loro, che sto dalla loro parte!

È questo il problema Sara: tu non stai dalla loro parte! Se non sto dalla loro parte allora dove starei?

E così il malessere esplode, Sara va in mille pezzi, comprendendo quanto sia complesso definire un’unica identità soprattutto per chi non ne può avere una soltanto; di come è necessario avere un’altra forma di accettazione di se’.

«Sara vieni qui: mi dici perché hai rovinato la foto mia e del papà? Non l’ho rovinata. Ci ho passato sopra il pennarello nero, adesso non si vede più niente. Adesso è come me.»

Un romanzo duro che indaga sulle ferite prodotte dallo sguardo degli altri, pieno di giudizi e diffidenza, e apre una serie di riflessioni sull’adozione, vista dal punto di vista dell’adottato, sull’appartenenza, sull’identità, sul senso di sé percepito, rivendicato e assegnato da altri e sulla necessità di trovare nuovi vocaboli, nuove parole per descriversi. Se manca il termine in cui riconoscersi non esisti nemmeno tu.

Espérance Hakuzwimana, nata in Ruanda e adottata da una famiglia bresciana, ci mette l’anima in questo romanzo per descrivere il dilemma interiore di Sara, le ritrosie e i sensi di colpa, ma anche l’insopprimibile desiderio di ricomporre sé stessa, tutta intera, di ritrovare tutti i pezzi, consapevole delle ferite che questo percorso inevitabilmente apre.

Hakuzwimana descrive con delicatezza e profondità tutto lo smarrimento, la confusione, il dolore di chi non si riconosce nelle etichette imposte, di chi è stufo di essere giudicato non per ciò che è ma per come appare.

Tutta intera di Espérance Hakuzwimana – Einaudi ( 2022) – pag. 206

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