Mi sono approcciata a Richard Wright e alla prima parte della sua autobiografia e, senza sapere bene cosa aspettarmi e mi sono ritrovata catapultata in un libro durissimo, in cui la violenza incombe fin dalle prime pagine.
Richard inizia il suo racconto da quando era solo un bambino di pochi anni e tutta la sua famiglia lo educava a suon di botte, frustate e scudisciate, per correggere il suo comportamento, per fargli abbassare la testa. Per loro Richard è solo un dannato, condannato a bruciare nel lago di fuoco evocato più e più volte nelle prediche domenicali della chiesa Avventista del Settimo Giorno, frequentata dalla nonna e dall’intera famiglia. La sua voglia di conoscenza, il suo bisogno di comprendere il perché delle cose, di non accettare passivamente quello che è sempre stato, giusto o sbagliato che sia, lo rendono un reietto.
Nella descrizione della sua infanzia non c’è mai un momento di spensieratezza, né di affetto, totalmente assente anche l’imprinting educativo della famiglia o della scuola, non troviamo amici che lo affianchino, o qualcuno che si prenda veramente cura di lui. Emerge il ritratto di un uomo che si è fatto da solo, che per prove ed errori, tra mille difficoltà, amarezze, momenti di disperazione, ha capito il suo posto nel mondo. Costretto a cambiare casa in continuazione, a vivere con i parenti, a cercare di guadagnarsi qualche dollaro, facendo i mestieri più umili e frustranti, a frequentare la scuola a singhiozzo, Richard trova però nella sua intelligenza, nella sua viva curiosità e nella lettura, i mezzi per salvarsi dalla trappola mortale dell’abbrutimento morale e materiale, nel tagliare la corda che lega tutti i neri ad una condizione tragica di perenne asservimento, ad allontanarsi dal triste destino comune alla sua gente. In lui, fin da piccolo, è fortissima la consapevolezza della disuguaglianza e disparità di trattamento tra bianchi e neri e della manifesta ingiustizia di tutto ciò.
L’osservare la gente bianca mangiare faceva gorgogliare il mio stomaco vuoto e mi suscitava una vaga irritazione. Perché io non potevo mangiare quando avevo fame? Perché dovevo sempre aspettare fino a quando gli altri non avessero finito? Non riuscivo a capire perché ci fosse gente che aveva cibo a sufficienza e altri no.
Quello che però lo distingue dagli altri è la sua volontà a non assoggettarsi a quelle regole, a non ritenerle giuste, a non stare al gioco che rende il bianco immediatamente superiore e il nero un essere inferiore, a ribellarsi a quell’assenza di prospettive, alle punizioni, ai soprusi, alle ingiustizie, alle storture di una società che non considera i neri «comunque umani». A condannare quegli stereotipi che vogliono il nero stupido, ignorante, fannullone, servile, tutt’al più un buffone, che si presta a far ridere l’uomo bianco, ma ancora più spesso è solo un criminale pericoloso da cui prendere le distanze.
Il Sud bianco diceva che io avevo un ‘posto’ nella vita. Bene, io non avevo mai sentito il ‘posto’. O, piuttosto, i miei istinti più profondi mi avevano sempre fatto respingere il ‘posto’ al quale il Sud bianco mi aveva assegnato. Non m’era mai capitato di ritenermi in qualche modo un essere inferiore. E mai nessuna parola sgorgata dalle labbra dei bianchi del Sud mi aveva fatto veramente dubitare del valore della mia umanità.
La lettura di Ragazzo negro suscita sdegno, indignazione, rabbia. Non si può rimanere indifferenti alla brutalità che scaturisce da ogni pagina, dalla violenza che pare acquisita nel DNA dei neri, come retaggio della schiavitù: la frusta come unico modo per correggere, per educare, per ottenere obbedienza.
Tramite la narrazione, a volte di una crudezza e drammaticità senza fine della sua infanzia ed adolescenza, Richard Wright trasforma la sua personale esperienza nel racconto di un’intera generazione di neri costretta a subire gli stessi torti, le stesse angherie, le stesse violenze. Un romanzo autobiografico che è riflesso e simbolo della condizione dei neri americani.
Le sofferenze di mia madre divennero una specie di simbolo; nella mia mente, un simbolo, che riassumeva tutta la miseria, l’ignoranza, l’impotenza, le ore e le giornate dolore di fame e di smarrimento, l’incessante peregrinare, la vana ricerca, l’incertezza, il timore, la paura, il dolore senza significato e il continuo soffrire. La sua vita formò il tono emotivo della mia vita, diede un colore agli uomini e alle donne che avrei incontrato in futuro, condizionò il mio rapporto con eventi che non erano ancora accaduti, determinò il mio atteggiamento in condizioni e circostanze che dovevo ancora affrontare…
Per questo Richard Wright, che scrive questo memoir nel 1945, ha avuto un ruolo fondamentale nel contribuire a mettere in discussione la “questione razziale”, criticando contemporaneamente: i bianchi disumani e i neri. I primi che, considerandosi superiori, sfruttano il lavoro dei neri come manovalanza a basso prezzo e vogliono che rimangano sottoposti, umili, servili. I secondi, che educano i figli a una sudditanza cosciente e mai messa in discussione, non prendono nemmeno in considerazione che questa sudditanza sia sbagliata, un sistema da abbattere e una libertà sopratutto di testa da rivendicare. I neri, infatti, nonostante l’abolizione della schiavitù, sono stati educati alla obbedienza, all’abbassare sempre la testa, a evitare il conflitto, a non rispondere all’uomo bianco se non “Sì signore” “No signore”, all’avere sempre scuole peggiori, case peggiori, una vita a senso unico, senza nessuna reale prospettiva di avanzamento sociale. E a tutto questo occorre consapevolmente ribellarsi, iniziando a studiare, ad avere sogni, a combattere il pregiudizio, ad uscire da schemi mentali atavici e consolidati ma non per questo giusti.
In quest’opera, di una potenza inimmaginabile, Richard Wright ci dà una lezione contro ogni razzismo, contro ogni essere umano che si arroga il diritto di assegnare un “posto” di inferiorità, di non-umanità a un altro essere umano:
«Questa è la cultura dalla quale sono scaturito. Questo il terrore dal quale sono fuggito».
Una lettura assolutamente da fare.
Ragazzo negro di Richard Wright – Einaudi (2014) – pag. 324