“Quelle donne trans elargivano la propria saggezza, come offrivano tutto quel che avevano in borsa a chi le trattava con rispetto. Il cuore trans: un fiore selvatico, un fiore gonfio di veleno, rosso con i petali di carne.”
A Parco Sarmiento a Cordoba, in Argentina, si incontrano tutte le trans della città.
A capitanarle c’è Zia Encarna, una madre, una zia per ciascuno di loro, che vive in una casa rosa, la pensione più frocia del mondo, il posto che ha accolto tante di loro, nascosto, protetto, ospitato nel momento di disperazione. Per la voce narrante è un paradiso, un posto in cui essere accolti ed accettati per quello che si è. Dove ci si racconta i ricordi d’infanzia, i sogni ad occhi aperti, si guardano le telenovelas, ci si consiglia trucchi e medicine. Tra loro c’è un legame intenso, cementato dalle violenze subite e dalla condivisione di un corpo che è una scelta, ma anche un marchio.
Christian, la voce narrante, è nato sotto minaccia, in povertà, da un padre alcolizzato e violento.
“In fondo, credo di essere diventata la donna che sono ora per pura necessità. Quell’infanzia violenta, con un padre che alla minima scusa ti scagliava addosso tutto quel che trovava, si toglieva la cintura e castigava, si infuriava e picchiava ogni cosa avesse intorno: moglie, figlio, oggetti, cane. Quell’animale feroce, il mio fantasma, il mio incubo: era tutto troppo orribile per voler essere un uomo. Io non potevo essere un uomo in questo mondo.”
Ha iniziato da bambino mentre disegnava la madre, cercando di strapparle un sorriso e intanto la osservava mentre si truccava, mentre si vestiva e la imitava. Ha rubato trucchi, abiti, pezzi di stoffa per poter diventare Camila. I genitori si vergognano di quel figlio grasso ed effeminato, ma anche lui si vergognava di loro, della loro miseria, della mancanza di prospettive.
“Tutto ciò che mi infondeva vita, ogni desiderio, ogni amore, ogni decisione presa, lui l’avrebbe minacciata di morte”.
Per sopravvivere ha sempre lavorato. Imparando a condurre una doppia vita, il giorno l’università e la fame, la notte travestendosi e battendo nei dintorni del Parco Sarmiento.
E’ attraverso la sua voce che il lettore si immerge nella notte argentina, nella vita fatta di poco e niente, di emarginazione e violenza, ma anche di affetto e solidarietà della comunità trans.
Nel suo racconto, che non risparmia crudezza, mischia realtà a realismo magico. Un libro, che per l’accurata descrizione di questo mondo di confine, potrebbe quasi definirsi un reportage, in cui viene sezionata la vita di queste donne, nate in corpi d’uomo, che si trasformano e si plasmano, per ritrovarsi, per piacersi e per piacere.
Un mondo eccessivo, straripante, sovrabbondante, sotto tutti i punti vista, nei corpi, nei vestiti, nel trucco, nei tacchi, nell’uso di droghe, alcol e sesso. Una sorta di circo in cui ogni personaggio ha un suo perché.
Laura: “L’unica a non avere un fiore carnivoro tra le gambe, non come noi che nelle mutande avevamo un animale addormentato e ben nascosto, o una vagina aperta con un pulito taglio di bisturi”.
Maria la Muta che a poco a poco si trasforma in uccello, con le piume, il becco, gli artigli.
Machi una guaritrice, custode della magia più antica, in grado di resuscitare i morti.
Natalì il settimo figlio maschio che nelle notti di luna piena si trasforma in lupo mannaro
Angie la più bella, che travolge tutti con il suo motto e il suo modo di vivere “Io sono diventata trans perché essere trans è una festa”
Patricia “Era sbreccata come un bicchiere di vetro e con i bordi delle sue ferite ti faceva male”, strabica, zoppa, eppure incantevole.
E soprattutto Zia Encarna, il centro di quella comunità, che decide di adottare un bambino trovato nei cespugli del parco, accolto e accudito da tutte, chiamato Splendore degli occhi, che per lui diventa padre e madre
Ne deriva un racconto disincantato e veritiero di un gruppo di reiette, che hanno la violenza, il pregiudizio e l’emarginazione come stigma sociale da cui non c’è scampo. Lo squallore di una vita a metà, la necessità dei soldi, tanti, per le cure. La paura ogni volta che si avvicina un cliente, ogni volta che la polizia fa irruzione, lo schifo che vedono negli occhi degli altri, l’odio che li bolla come degenerati, ma che non esclude, in un cortocircuito ipocrita, che i clienti non manchino mai, che siano le più desiderate e volute nel mercato del sesso.
Eppure in queste pagine scorre la vita, c’è l’allegria del ritrovarsi, c’è il colore dei vestiti e degli orpelli che indossano, c’è la gioia immensa di qualcosa di inaspettato. Un gruppo cacciato da tutti che trova nello stare insieme la famiglia di cui ha bisogno.
“Siamo creature notturne, perché negarlo. Non usciamo durante il giorno. I raggi del sole ci debilitano, rivelano le indiscrezioni della nostra pelle, l’ombra della barba, i tratti indomabili degli uomini che non siamo.”
“Siamo come un tramonto senza occhiali da sole”, diceva Zia Encarna, “il nostro fulgore acceca, offusca chi ci guarda e li spaventa”.
Un libro che è anche un esorcismo contro la morte e il disprezzo che impregna le loro vite e che va letto per vedere al di là dei lustrini e degli eccessi, delle provocazioni e della sfida insita in loro, per intravedere il dolore e la sofferenza di un corpo diviso a metà.
“Le cattive” di Camila Sosa Villada, SUR (2021) – Pag. 223