Marilyn: la solitudine di una farfalla

Blonde di Joyce Carol Oates. Uno struggente ma anche implacabile ritratto della diva per eccellenza Marilyn Monroe, all’anagrafe Norma Jeane Baker, nata a Los Angeles l’1 giugno 1926, morta a Brentwood, in circostanze mai del tutto chiarite e al termine di un’esistenza tanto breve quanto tormentata, il 5 agosto 1962.

Oltretutto oggi è proprio il 1 giugno e anche se può sembrare per lo meno strano, Marilyn avrebbe potuto essere ancora viva, una novantaseienne pimpante come la Regina Elisabetta.

Ma, come dicevano i greci “Muore giovane chi è caro agli dei” e la quintessenza della femminilità, la personificazione di una dea non poteva certo combattere con il decadimento fisico e la vecchiaia, infondo Marilyn pare fatta della stessa materia dei sogni, evanescente e impalpabile. E questa biografia romanzata, o romanzo ispirato ad una biografia, lo dimostra a pieno. Omaggio a Marilyn e allo stesso tempo critica ad un sistema che inghiottiva e fagocitava il talento per farne soldi. Ritratto spietato di una Hollywood senza scrupoli e biografia di un’artista incompresa.

Un romanzo complesso, contorto, frastagliato, con continui cambi di voce e di prospettiva, temi introdotti, appena accennati e ripresi pagine e pagine dopo, che cerca di entrare nel mistero di Marilyn.

Chi era veramente? Che cosa creava la magia che promanava dallo schermo in sua presenza? Era davvero così autodistruttiva come ce l’hanno sempre descritta?

Strano come in ciascuna di quelle foto, Norma Jeane apparisse diversa. Infantile, fascinosa. Genuina, sofisticata. Eterea, sensuale. Giovane per la sua età, vecchia per la sua età. (Ma quale era l’età di Noma Jeane? Dovette pizzicarsi per riuscire a ricordarsi che aveva solo 20 anni.) Capelli sciolti, capelli raccolti. Era discola, civettuola, pensosa, dolce, sfrenata, seria, sbarazzina. Era carina. Era bella. Era splendida. La luce cadeva suoi suoi lineamenti enfatizzandoli, oppure li ombreggiava come in un dipinto.

In ogni foto, in ogni film, in ogni fotogramma che la riprende se si guarda bene abbiamo di fronte una donna diversa. La sua è un’immagine raddoppiata talmente tante volte da essere diventata una sorta di minuscolo frammento di luce intrappolata e riflessa da un prisma, perciò ognuno ci può vedere ciò che preferisce.

Eterea e sfuggente, una farfalla effimera e bellissima, impossibile catturarne l’essenza che sfugge continuamente.

In queste settecento pagine, i temi principali della sua breve vita ci sono tutti: l’infanzia con una madre con gravi problemi psichiatrici; la permanenza in vari orfanotrofi, pur non essendo orfana; l’affidamento a tante, troppe, famiglie; il padre che non conobbe mai; il matrimonio a 16 anni per cui dovette abbandonare la scuola; l’inizio del lavoro in fabbrica durante la seconda guerra mondiale; le prime foto; la carriera come modella e poi come attrice; gli “inevitabili” compromessi sessuali sul divano dei produttori; Norma Jeane che lascia il posto a Marilyn; la voglia continua di migliorarsi; il triangolo amoroso con i “gemelli” Cass e Eddy G,.; i matrimoni con Joe di Maggio e Arthur Miller; l’amicizia con Marlon Brando; gli aborti; il periodo newyorchese; le lezioni di recitazione; gli ultimi film tra continui ritardi e abusi di sostanze; la voglia di fare teatro; la maternità negata; la solitudine; le visite alla madre ricoverata in un istituto psichiatrico; i diari in cui appuntava pensieri, frasi e poesie; la relazione con Kennedy; la morte piena di mistero.

Seppur l’autrice non scelga di chiamare con il vero nome tutti i coprotagonisti della vita di Norma Jean (definita Attrice Bionda) e di Marilyn (Amica Magica) si riconoscono perfettamente: l’Ex-Atleta (Joe DiMaggio), il Drammaturgo (Arthur Miller), i Gemelli (Cass Chaplin e Edward G. Robinson Jr.), i vari registi e produttori indicati solo con l’iniziale maiuscola, il Presidente (John Fitzgerald Kennedy), il Ruffiano (Peter Lawford).

L’autrice americana non scrive una biografia convenzionale, ma un romanzo ispirato alla vita della diva più conosciuta e amata di sempre. E così facendo, restituisce più delle tante pagine scritte o dedicate a Marilyn, l’essenza più profonda e nascosta di Norma Jean. In un ritratto a 360 gradi che mescola le sue parole, come se fosse lei stessa a raccontarsi, con quella dei suoi mariti, dei suoi amanti, dei produttori e registi che lavorarono con lei, degli attori che la conobbero, del suo truccatore e dei tanti medici che, in modo irresponsabile la rifornivano di generose dosi di pillole: codeina “per i dolori reali o immaginari”, benzedrina “per fare il pieno di energia”, Nembutal “per un sonno senza sogni né consapevolezza”, Demerol “tranquillante miracoloso”, fino alle flebo di idrato di cloralio, un potente sedativo ipnotico, e fa emergere, come in controluce, la sua vera natura.

Oates cerca di catturare l’immagine della donna, di Norma Jeane, delle sue difficoltà di accettarsi e di volersi bene. La bambina nel corpo pazzesco di una donna, sfruttata dagli Studios, paranoica, stressante, talmente perfezionista da ripetere la stessa scena fino allo sfinimento, ma talmente brava che chi lavorava con lei non poteva non riconoscere il suo valore. Ma anche di afferrare l’ambiziosa e determinata Marilyn desiderosa di emergere, di ottenere parti che le togliessero l’etichetta di “oca senza cervello”, di dimostrare a tutti, soprattutto i suoi detrattori di essere un’attrice vera, con la A maiuscola, un’artista completa capace di passare dalla commedia brillante, al dramma, di ballare, cantare, ed esprimere tutte la gamma di cui un buon interprete deve farsi portavoce.

Sul set di Niagara, e a Hollywood in genere, c’erano teorie contrastanti. La prima era che la protagonista (Marilyn Monroe) non sapesse recitare e non avesse bisogno di saper recitare perché per interpretare la svergognata “Rose Loomis” le bastava essere sé stessa, e che era appunto per quello che i responsabili della produzione avevano scritturato proprio lei (giacché a Hollywood era risaputo che i pezzi grossi dello Studio, da Mr. Z in giù, consideravano Marilyn Monroe una sgualdrinella di livello appena più alto di una prostituta o di un’attrice porno); la seconda era una teoria molto più sfumata sostenuta dai suoi registi e da alcuni tra gli attori che avevano recitato con lei, ed era che Marilyn Monroe fosse un’attrice nata, un’istintiva, per certi versi una specie di genio, qualunque cosa significasse il termine ”genio”, e che di volta in volta si scopriva a “recitare” così come, a furia di dibattersi in maniera scomposta e sconnessa una donna sul punto di annegare si scopre a nuotare. Nuotare ”le veniva” naturale! Per la propria arte l’attore si serve del volto che ha, della voce che ha, del corpo che ha. Non ha altri strumenti. Ha in se stesso la propria arte.

Joyce Carol Oates mette ben in chiaro alcuni aspetti dell’attrice: l’estremo perfezionismo l’ansia di non esprimere al meglio il ruolo che doveva interpretare, la sua immensa capacità di entrare completamente nel personaggio, in modo da esserlo non solo interpretarlo; la sensibilità, la fragilità, la bellezza incompresa per cui di lei si vedeva solo l’involucro e mai il contenuto.

Difficile ricostruire oggettivamente la personalità di Norma Jean, sempre nascosta dalla più celebre Marilyn, ma anche capace di riscrivere più e più volte la sua storia

Se sullo schermo Marilyn diventava una presenza magica, fluida, come musica, inevitabile ed inconfondibile, nella vita reale pareva spesso più giovane, più ingenua, una bambina con un corpo da adulta.

Nel leggerlo, ho sofferto, ho pensato a quante volte l’idea che ci facciamo di una persona possa diventare una condanna per quel qualcuno. Norma Jeane fu costretta nella parte dell’”oca giuliva”, ma aveva una profondità, una sensibilità e una intelligenza che nessuno, neanche sospetterebbe: voleva solo essere presa sul serio, sognava di impersonare Masa de Le tre sorelle o Grushenka de I fratelli Karamazov. Sognava di esordire in teatro e mettere a tacere tutte le malelingue. Voleva essere amata e capita, voleva che chi la guardava non vedesse Marilyn ma Norma Jean, non l’attrice, il sex simbol ma la donna.

E forse il pregio più grande di questo libro è proprio quello di mettere al centro della narrazione Norma Jean, la giovane piena di talento. La giovane promessa del cinema che impersonava Marilyn. Una Marilyn, spumeggiante e vaporosa, che a sua volta interpretava Rose, Sugar, Cherie, Lorelei Lee, la “Ragazza del piano di sopra”, Roslyn…

In un gioco di specchi e di frantumazione della realtà che certamente non giovava alla sua psiche.

Quel mattino MARILYN si ostinava a comparire nello specchio solo per sparire immediatamente, come una bambina monella. Affiorava e si inabissava. Balenava e svaniva. Era rintanata da qualche parte nelle vetrose profondità dello specchio, e bisognava attirarla in superficie. L’Amica Magica di Norma Jeane, quell’Amica Magica nello specchio che un tempo lei aveva amato di cui adesso sapeva non potersi più fidare. Né poteva fidarsene il poteva Whitey. Whitey che era assai più paziente di Norma Jeane e assai meno facile a scoraggiarsi. Perché all’improvviso ecco che poteva apparire la scaltra MARILYN, occhioni blu terso come cristallo e crepitanti di vita; che ammiccava e sorrideva ad entrambi; eppure, dopo pochi secondi, dopo un colpo di tosse, gli occhi di MARILYN erano scomparsi e al loro posto c’era lo sguardo avvilito e nauseato di Norma Jeane. Che diceva: “Oh Whitey. Lasciamo perdere.”

Una donna profondamente insicura, desiderosa di migliorarsi, di crescere, che studiava continuamente, che scriveva poesie. Leggeva Cechov, Dostoevskij, Freud, Darwin, aveva il sogno di impersonare, possibilmente a teatro, una delle eroine di carta di cui tanto leggeva.

Incompresa, vulnerabile, fragile, desiderata come un oggetto eppure infondo in fondo poco amata. Chi la incontrava voleva conoscere Marilyn, mentre lei voleva che amassero Norma Jean.

Alla fine tra le mani rimane un ritratto veritiero di un’artista complessa fatta di luci ed ombre.

Blonde di Joyce Carol Oates – Bompiani (2000) – pag. 773

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