La necessità di essere unici

«Hanno paura di quello che non capiscono. E la paura si trasforma in odio per ragioni che, sono sicura, sfuggono anche a loro. Visto che non capiscono i bambini ne hanno paura. E visto che ne hanno paura li odiano.»

Ho ascoltato con enorme attenzione il monologo di Drusilla Foer a Sanremo, il suo inno all’unicità e vi ho trovato un immediato collegamento a questo romanzo.

Quanti sono i pregiudizi che condizionano la nostra vita? Quante le idee preconcette che abbiamo, a volte anche inconsapevolmente? Quante volte le nostre convinzioni sono frutto solo di convenzioni?

Linus Baker è un uomo abitudinario e solo. Non ha amici, conduce una vita piatta, illuminata solo dai girasoli che ha piantato in giardino, dall’ascolto dei vinili di Buddy Holly, J.P. Richardson e Ritchie Valens – morti tutti e tre in un incidente aereo nel febbraio del 1959, ricordato come “il giorno in cui la musica è morta” – e dal gatto Calliope. Vive in una società in cui i diversi, creature magiche, sono schedati, etichettati, controllati. I bambini magici vivono in una sorta di orfanotrofi e Linus, in qualità di assistente sociale, ha il compito di visitarli per verificare che i bambini siano trattati bene, non subiscano abusi, non siano maltrattati. Linus, pur essendo ligio alle regole riportate nel Manuale delle Norme e dei Regolamenti, è estremamente attento al suo lavoro, cerca di farlo al meglio, anche perché a lui piacciono i bambini ed è certo che il DIMAM (Dipartimento della Magia Minorile) per cui lavora, faccia di tutto per dare una sistemazione adeguata e amorevole ai bambini diversi.

Quando è chiamato dalla Suprema Dirigenza per un nuovo incarico top secret, parte per l’isola di Marsyas, con la gabbietta del gatto e sette smilzi fascicoli su chi è ospitato là. Non ha idea di cosa l’aspetti e all’inizio nemmeno che cosa abbiano di particolare i bambini ospitatati sull’isola. A Marsyas Linus sarà travolto prima dalla bellezza della natura che lo circonda, poi dall’atmosfera che si respira.

Verde. Il magnifico verde brillante dell’erba agitata dal vento, e punteggiata dal viola, rosa e oro di quelli che parevano fiori. Il tutto digradava in una spiaggia bianca e oltre il bianco, il celeste”.

Giorno dopo giorno, la conoscenza con Talia, Lucy, Phee, Theodore, Sal, Chauncey ma anche con il direttore dell’orfanotrofio Arthur Parnassus e con Zoe Chapelwhite lo cambierà profondamente. Inizierà a vedere le cose in un altro modo, a capire quanto grandi possono essere i condizionamenti, che ci influenzano anche senza volerlo.

«… la gente si preoccupa solo di quello che è, di ciò di cui è capace. E la loro preoccupazione è una sottile copertura per la paura e la repulsione. I bambini capiscono molto di più di quello che pensiamo. Se lui vedesse in me la stessa cosa che ha visto negli altri, che speranza avremmo?» «Speranza?» domandò ottusamente Linus. «Speranza» ripeté il signor Parnassus. «E’ ben questo che dobbiamo dargli, che dobbiamo dare a tutti. La speranza, e una guida, e un posto sicuro, una casa dove possono essere ciò che sono senza temere ripercussioni.»

Apparentemente il cambiamento più grande riguarda Linus, in realtà è grazie al suo atteggiamento, al suo modo di essere, che cambia anche quello della sindaca Helen e del villaggio che amministra, ma soprattutto quello di Arthur che finalmente accetta la sua natura e si apre all’altro.

Interessante notare come il pregiudizio faccia nascere diffidenza anche in chi è oggetto di quel pregiudizio, al punto da nascondersi o prendere atteggiamenti di aperta sfida.

La casa sul mare celeste parte con la descrizione di una società orwelliana, pare di essere piombati in una società gemella a quella descritta in 1984, con enormi poster che invitano alla delazione “Chi non denuncia è complice” e un clima di omertà e rassegnazione che pervade ogni ambiente. Vira poi alla descrizione di un’isola, geograficamente ma anche metaforicamente distante e diversa, in cui un uomo visionario sta cercando di educare nel modo corretto, fatto di affetto ma anche di regole da rispettare e di rigore, dei bambini ad essere adulti consapevoli e giusti. Una scuola e un uomo che mi hanno ricordato Charles Xavier, ideatore e direttore della scuola per mutanti, gli XMen, dove insegna ad imparare a convivere con i propri poteri, convinto che ci possa essere una pacifica convivenza tra chi è dotato e chi non lo è. Fino a diventare una sorta di inno alla ribellione, intesa non come violenza, ma come mutamento, un principio che ricorda la celeberrima frase del Mahatma Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.

«La bambina. Non aveva paura di me. E’ stata gentile. Non le importava del mio aspetto. Il che significa che pensa con la testa. Magari la signora le dirà che sono cattiva. Magari lei ci crederà. Ma magari no. Arthur una volta mi ha detto, che per cambiare la mentalità delle masse, bisogna cominciare cambiando la mentalità dei singoli. Lei è solo una persona. Ma lo stesso vale per la signora.»

Uno dei punti forti di questo romanzo, oltre alla storia e al messaggio che veicola, sono i personaggi, tutti ben caratterizzati e talmente reali, sia nella loro descrizione che nei loro pregi e difetti, da risaltare e diventare indimenticabili. Alla fine si ha voglia di abbracciarli tutti: di accompagnare Talia in giardino ad ammirare le sue aiuole fiorite; di regalare un bottone a Theodore; di leggere i racconti di Sal; di farsi portare la valigia da Chauncey; di ascoltare musica con Lucy; di abbracciare un albero con Phee, ma anche di andare in macchina con Zoe e parlare fino allo sfinimento con Arthut e Linus.

In una società che ha fatto dell’uguaglianza il diritto principe e della tolleranza il suo mantra, ma che continua a discriminare in base al colore della pelle, all’orientamento sessuale, al credo religioso, all’etnia, al genere, che continua ad additare il diverso per una sottile ed incontrollata paura per tutto ciò che esce dalla normalità, vedere l’altro per quello che è, senza fermarsi all’apparenza e al pregiudizio è l’insegnamento più importante. Perciò questo romanzo contiene un insegnamento fondamentale, non fermiamoci all’apparenza, al nome, all’aspetto, alla religione, ma cerchiamo di vedere chi abbiamo veramente davanti, l’essenza spogliata da tutti gli inutili orpelli.

Un libro stupendo, una favola tremendamente attuale, con un messaggio fortissimo, traslando ciò che ha detto Drusilla Foer: accetta la tua unicità e così facendo ti aprirai a quella degli altri.

“Non sono che carta. Fragile e sottile. Se mi si tiene contro sole, esso risplende attraverso di me. Mi scrivono sopra, e non mi si può riutilizzare. Ognuno di questi graffi è una storia. Questi graffi sono una storia. Raccontano cose che gli altri leggono, ma vedendo sempre e solo le parole, mai quello su cui le parole sono scritte. Non sono che un foglio di carta, e sebbene ce ne siano molti altri come me, nessuno è mai perfettamente identico all’altro. Io sono arida pergamena. Ho solchi. Ho buchi. Bagnami, e mi scioglierò. Dammi fuoco, e brucerò. Stringimi tra mani inaccorte, e mi accartoccerò. Mi strapperò. Non sono che carta. Fragile e sottile.”

Chi non si è sentito almeno una volta nella vita proprio così: un foglio di carta stropicciato e scritto, inutile, da buttare… eppure unico.

La casa sul mare celeste di TJ Klune – Mondadori (2021) – pag. 390

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