La moda nel mondo antico: dalla Prestoria all’Impero Romano

“Ogni copertura corporea, vestito o parure, tende ad inserirsi in un sistema formale, organizzato, normativo, costruito dalla società, è cioè “costume” vettore di messaggi identitari e valori simbolici, non più semplice capo d’abbigliamento a carattere utilitario, ma modello sociale, “immagine più o meno standardizzata di comportamenti collettivi” ai quali conformarsi”

Come si può non rimanere affascinati dalla moda?
E guardando le pitture, le statue, che risalgono all’antichità, non avere la curiosità di saperne di più?

Il termine moda deriva dal latino “modus”, che significa maniera, norma, regola, ma anche tempo, melodia, ritmo, tono, moderazione, discrezione.

La moda nasce sicuramente dall’esigenza di coprirsi con tessuti o pelli, ma ha anche una funzione sociale, atta a distinguere le varie classi e mansioni.

La moda affonda le proprie origini nel Paleolitico, quando gli uomini impararono a trattare le pelli e cominciarono ad utilizzarle per ripararsi dal freddo.

Nelle civiltà mesopotamiche (Sumeri, assiri, Babilonesi) l’abito più in voga era il “Kandys”, una specie di accappatoio con maniche corte e di lunghezza variabile, chiuso sul davanti con una cintura in tessuto, di solito a colori vivaci, con linea dritta e decorata con frange e ricami a motivi geometrici.

Sopra le caste più elevate, indossavano la “Kaunace”, decorata con frange e ricami, che lasciava scoperta una spalla.

Gli Assiro Babilonesi, oltre a migliorare la tessitura e la cucitura, svilupparono le arti della tintura, della decorazione e del confezionamento di calzari e calzature.

Il primo vero e proprio abito, completo di casacca, pantaloni e cintura fu realizzato, molto probabilmente dai Persiani.

Gli egizi, invece, confezionavano abiti in lino leggero: corti in genere per gli uomini del popolo e lunghi fino a terra per le donne.

Gli uomini indossavano lo “Skentis”, una sorta di gonnellino, spesso plissettato e nel caso del Faraone e dei dignitari, reso rigido dall’amido e arricchito da cinture di cuoio, metallo e oro.

Le donne la “Kalasiris”, una tunica pieghettata o plissettata.

Le differenze tra classi sociali erano rimarcate dall’uso di simboli, copricapi o gioielli rituali, (collane, diademi, bracciali, cinture, anelli e cavigliere) indossate da entrambi i sessi.

Anche la parrucca, spesso fatta con capelli umani, era usata da entrambi i sessi.
Particolare cura era riservata alla cosmesi, famoso l’uso del bistro (l’antenato dell’eyeliner e del mascara).

I vestiti dell’antica Grecia consistevano in pezzi di lana o di lino fissati alle spalle con spille decorate e cinte con una fascia.
Entrambi i sessi indossavano il chitone, un tipo di tunica che arrivava alle ginocchia per gli uomini e fino ai piedi per le donne. Tante più erano le fibule che tenevano chiuso il chitone sulle spalle, maggiore era la ricchezza della veste. L’idea era riprodurre, nelle pieghe, le scanalature delle colonne dei templi.

L’abito femminile per eccellenza era il peplo, formato da un tessuto rettangolare di circa 3 metri di larghezza e 2 di lunghezza, di lana più o meno spessa, piegato in due nel senso della lunghezza, passato attorno al corpo, chiuso al collo da fibbie e aggiustato in vita da una cintura. Non era facile da indossare e da portare anche a causa delle sue dimensioni che intralciavano nei movimenti. Sopra veniva indossato l'”Himation”, una sorta di mantello di lana.

L’abbigliamento femminile era completato dal velo che era realizzato con stoffa finissima, fabbricata nelle isole di Coo, di Amorgo e a Taranto. I veli di Coo erano tanto trasparenti che per essi si adoperavano espressioni come “ventus textilae” (tessuti di vento) o ”nebula linea”(nebbia di lino).

La sposa (nymphe) indossava un chitone stretto in vita da una cintura e un mantello. Sulla testa portava un velo (kalyptra) ricamato di colore vivace, rosso-arancio. Veniva poi agghindata con gioielli, in particolare un diadema ed indossava dei sandali fabbricati per l’occasione. Il modello di riferimento era Pandora o Afrodite dell’Inno Omerico

Il colore usato non era solo il bianco, ma anche colori brillanti, in particolare il rosso porpora, il turchino, il verde e l’indaco.

Per i greci comunque la nudità era l’esaltazione della bellezza.

I pantaloni, in greco “anaxyrides” sono databili tra il 1200 e il 900 a.C. Erano l’abbigliamento tipico dei Persiani e delle Amazzoni. Erano fabbricati con tre pezzi di lana ed erano funzionali al clima freddo, alle cavalcate e allo stile nomade.

I romani indossavano una sorta di intimo (gli “Indumenta”) che per le donne comprendeva anche una fascia reggiseno.

L’abbigliamento romano seppur simile a quello greco differiva soprattutto perché il volume delle vesti non era determinato dalla larghezza del tessuto, ma dalla sovrapposizione di più indumenti.

Gli uomini indossavano una o più tuniche sovrapposte, lunghe fino ai piedi, e sopra una toga, cioè un mantello (in genere una pezza intera di stoffa) che si portava appoggiato sul braccio. La “Toga” fu importata a Roma dagli etruschi. Era un tipo di “Toga” bordata di rosso che veniva indossata da tutti i più alti magistrati. L’uso della “Toga” era riservato esclusivamente ai cittadini romani maschi, mentre gli schiavi e gli stranieri non avevano diritto di indossarla. Chi era condannato all’esilio perdeva il diritto (“Ius togae”) di indossarla.

L’abbigliamento femminile partiva da una specie di sottoveste senza maniche chiamata “Subucula”, che nei periodi più freddi potevano essere anche più di una, a cui veniva sovrapposto il “Supparum”, una specie di abito dalla lunghezza variabile che per chiudersi sulle spalle utilizzava fibbie o gioielli, talvolta anche di grande valore.

Il guardaroba di una patrizia romana prevedeva anche la “Stola” (una tunica molto ampia e lunga fino a piedi), chiusa al petto da una fibbia, oppure sulle spalle da bottoni ornati di pietre preziose, la “Recta” (una tunica bianca senza maniche) e la “Palla”, un vero e proprio mantello di forma rettangolare, che poteva coprire anche la testa e che indossavano anche gli uomini (“Pallium”).

La veste era ornata sul fondo da una striscia di porpora o da una balza ricamata in oro, “Istita” più o meno spessa e lavorata. La “Stola”, che mostrava il rango di chi la indossava a seconda della stoffa e della decorazione, era modellata dal “Cingulum”, una cintura di stoffa, di pelle o di fibre naturali. L’uso della cintura era basilare, tanto che solo malfattori e prostitute non ne usavano (cioè discinti) mentre ne era dispensata la donna gravida (incinta appunto) che però ricorreva ad una striscia di tessuto sotto il seno.

L’abito nuziale delle romane consisteva in una tunica bianca, lunga fino ai piedi e stretta in vita dal “nodo erculeo (“cingulum herculeum”), che aveva una duplice funzione: mettere al riparo il matrimonio dalla malasorte e rappresentare il nodo da sciogliere dal marito la prima notte di nozze prima di possedere la consorte. Sopra si indossava la sopraveste color zafferano e ai piedi dei sandali dello stesso colore. I capelli erano acconciati in sei trecce raccolte in una reticella e il capo era coperto dal” Flammeum” l’accessorio per eccellenza, espressione della passione velata fino al giorno delle nozze. Il “Flammeum” era un velo rosso fuoco, arancio acceso o giallo zafferano, tonalità che rappresenta la fiamma della passione.

A partire dal 230 d.C. l’abbigliamento dei romani risentì dell’influsso dei nemici Barbari. Nonostante i contrasti, alcuni usi stranieri cominciarono a prendere piede nell’impero; e la vita imperiale si spostò progressivamente verso Oriente.

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