La tappa di settembre del gdl #ilrazzismonellaletteratura ci ha fatto conoscere una storia davvero potente scritta nel 1979 da Octavia Butler, conosciuta come scrittrice di fantascienza, e pubblicata per la prima volta in Italia nel 1994 nella collana Urania.
Chiudete gli occhi e immaginate di essere una giovane donna nera, sposata con un bianco, libera ed emancipata e di ritrovarvi all’improvviso in una piantagione del profondo Sud nel 1812 quando la schiavitù era ancora a pieno regime.
Questo è quello che accade a Dana, che dal 1976, è chiamata a soccorrere, quasi due secoli prima, un bambino bianco dai capelli rossi, Rufus, che si scoprirà avere un legame di sangue, quale suo progenitore, con lei.
All’inizio essere “infiltrata da un altro secolo” non pare a Dana particolarmente difficile. La sensazione è quella di essere una sorta di osservatrice distaccata. La spettatrice di un film ambientato nella prima decade dell’ottocento. E crede di poter, grazie all’influenza che ha su Rufus, instillargli alcuni dei principi della sua epoca e rendere così meno pesante la condizione degli schiavi della piantagione. Ma viaggio dopo viaggio subentra l’abitudine: “Non mi ero mai resa conto di quanto fosse facile per la gente abituarsi ad accettare la schiavitù”. E in quell’accettazione che si insinua poco a poco, in quell’accettare le regole ed obbedire per non subire conseguenze peggiori, in quella paura instillata a poco a poco, in quell’abbassare gli occhi, Dana diventa agli occhi degli altri schiavi una “negra bianca”, che si rivolta contro la sua gente, forse la peggiore offesa che le possa essere indirizzata.
“La schiavitù era un lento processo di intorpidimento”: non soltanto sottomissione e violenza, ma soprattutto annientamento psicologico totale.
Infine subentra anche lo straniamento
“Mi sentivo fuori luogo perfino nel mio tempo. L’epoca di Rufus aveva una sua realtà, più nitida, più potente. Il lavoro era più faticoso, gli odori e i sapori erano più forti, il pericolo più intenso, il dolore più violento… L’epoca di Rufus mi costringeva ad affrontare prove che non avevo mai affrontato, e rischiavo di morire se non mi dimostravo all’altezza. Era una realtà forte e vigorosa, che la dolce comodità di quella casa in quel presente, con tutti i suoi comfort, non sarebbe mai riuscita ad eguagliare”.
La sua vita nella piantagione, le sevizie che subisce, le violenze a cui assiste sono più reali, più vere e assolute dei principi a cui è stata educata, il suo saper leggere e scrivere, il suo desiderio di autodeterminazione, che crollano sotto i colpi della frusta.
Un romanzo in cui si intrecciano oltre alle storie sull’orrore della schiavitù, i temi dell’emancipazione femminile, dell’accettazione dell’indicibile, delle origini della popolazione statunitense in cui il sangue di bianchi e neri si incrocia più spesso di quanto si pensi, delle gerarchie esistenti anche tra schiavi, dello strano e complesso rapporto che c’è tra padroni e schiavi, che al tempo stesso amano, disprezzano e temono chi li priva della libertà.
Legami di sangue ha inoltre un valore aggiunto rappresentato proprio dallo sguardo con cui una donna moderna, con il suo bagaglio di esperienze, conoscenze e soprattutto principi, si trova catapultata nel passato, di cui conosce le storture e gli abusi. Ma averne letto e conoscere la storia non è come viverla sulla propria pelle.
Legami di sangue di Octavia E. Butler – BIgSur editore (2020) – pag. 357