«Il primo colore a volare via fu il giallo. Il vestito giallo che si era confezionata con tanta cura, con la tavolozza e i consigli saggi di Miss Mallony, fu ridotto fin da subito in brandelli. Del giallo, quel giallo che la faceva sentire il sole dentro il petto, non rimase che il simulacro. Poi se ne andò via il verde della speranza. Tutti quei piccoli sogni che coltivava per la sua vita evaporarono in quella furia di dolore e oblio che non pensava l’avrebbe travolta in quella sera che aveva immaginato felice. E uno dopo l’altro fuggirono da lei anche altri colori. Il blu orchidea, il viola melanzana e i petali di rosa brinati con cui si era cosparsa il capo per assomigliare a una ninfa. La lasciarono anche l’amaranto, il cardoville e il ciclamino. L’arancione la guardò un attimo prima di fuggire. La osservò con pietà. Lafanu era a terra e gemeva. L’arancione tra le lacrime non riuscì a sostenere lo sguardo spento della ragazza che solo un minuto prima era così vivo. Le voltarono le spalle pure il mandarino, la malvarosa e il fiordaliso. Per non parlare della vigliaccheria dell’oltremare che con la sua pioggia di lapislazzuli se ne andò a cercare qualche altra ragazza da accontentare. Ogni colore le fu cancellato di dosso. Le rimase una vaga traccia di madreperla negli occhi spaventati e il nero della sua pelle d’ebano. Il nero non la voleva abbandonare. “Non ti lascerò mai,” le prometteva, resistendo ai fendenti che gli arrivavano da ogni parte con ferocia. E Lafanu si aggrappò con tutte le sue forze a quella pelle africana mezza nativa, come fosse l’unica scialuppa a disposizione nei paraggi.»
Igiaba Scego intreccia due storie di donna divise da centocinquanta anni di storia: quella della pittrice Lafanu Brown trasferitasi a Roma dall’America per poter tornare a riacciuffare i colori volati via, risentire i sapori e riappropriarsi della propria vita, e quella di Leila, afroitaliana, curatrice d’arte, che nel seguire le tracce di Lafanu, organizzando una mostra su di lei, riscopre le sue origini e tutto il dolore concentrato in quella “Linea del colore”.
Lafanu racconta al suo salvatore e innamorato la sua storia fatta di soprusi, di sofferenza, ma anche di tanta passione per l’arte. Nata dall’unione tra un haitiano e una Chippewa, trova protezione in una donna bianca, che la sventola come simbolo della sua lotta allo schiavismo e la esibisce come un fenomeno da baraccone. Per lei, per il colore della sua pelle, negli Stati Uniti del 1850 non c’è posto. Non ha diritto di studiare, né di partecipare ad eventi pubblici, né di sognare di diventare un’artista e vibrare di tutta la passione e l’ardore che sprigiona mentre dipinge, seguendo l’ispirazione di tutti i geni che animano i libri di storia dell’arte.
“Nessun negro può essere cittadino americano. Non esistono negri americani. Non contribuite all’elevazione della nazione. Siete feccia”.
Leila nel preparare la mostra su Lafanu, ripensa alla sua vita di espatriata, e segue con preoccupazione, che diventa sgomento e poi orrore, il tentativo di fuga di sua cugina Binti dalla Somalia. Una fuga destinata al fallimento in mano a trafficanti di uomini senza pietà.
“Molti di quei pazienti avevano tentato il tahrib, il viaggio verso l’Europa, e si erano fermati a metà strada perché le violenze erano impossibili da sostenere o semplicemente perché erano stati rimpatriati. Erano persone traumatizzate da violenze inenarrabili”.
Ma La linea del colore è anche un meraviglioso affresco della Roma a cavallo del 1870, una città non ancora capitale d’Italia, ancora circondata dai campi e diversa, tanto diversa, da come la vediamo oggi. Una città aperta, accogliente, tollerante dove la protagonista Lafanu Brown trova finalmente un posto dove vivere, lontano da quell’America che la tiene ai margini perché nera, dove non ha trovato un futuro ma solo violenza.
“Niente mi ha reso davvero libera come viaggiare. Sono nata dentro quel piroscafo che mi portava a Liverpool, in Europa. Nata a diciannove anni. Solcando quel mare dove la mia gente, la gente nera ha sofferto l’inferno. Ed è superando l’inferno che sono rinata. Ora sto di nuovo partendo. Da questa grigia Inghilterra a quell’Italia che bramo tanto. (…) Sto andando a conoscere la terra in cui finalmente sarò me stessa.”
Ed è anche un viaggio attraverso opere d’arte immortali che illustrano la condizione di schiavo meglio di mille parole e che noi occidentali guardiamo senza vedere: indifferenti ai ceppi, agli sguardi soffrenti, alla mancanza di speranza che li contraddistingue.
Nel raccontare due storie così diverse e divise da anni di lotte civili, l’autrice ci spinge a riflettere su cosa significhi il colore della pelle, su come anche nelle opere d’arte noi troviamo tracce evidenti di quella schiavitù che a parole aborriamo, ma che poi non facciamo niente per abolire. Ci induce a riflettere sulla forza dei passaporti, forti, quelli degli stati europei ed occidentali che permettono qualsiasi cosa, deboli quello degli altri che non valgono nulla e non permettono nemmeno un soggiorno all’estero per studio o vacanza. E ci mette di fronte ad una società spaventata ed egoista che non è disposta a rinunciare a nulla e ha paura di tutto.
Perché ricordiamolo sempre: non si è schiavi ma si è ridotti in schiavitù
“Dicono che la Libia sia un pozzo nero. Che da lì non riemergi più. Io non lo so dire, in Libia nemmeno ci sono arrivata. Mi hanno azzannata prima. Ma ecco, cugina, dimmi tu che senso ha andare nei villaggi a dire alla gente di non partire. Io non lo potrei mai dire a un mio coetaneo. Perché ci vogliono togliere quello che loro – i bianchi, gli occidentali, quelli con il passaporto forte – hanno? Possono girare il mondo in lungo e in largo. E vogliono che noi invece non muoviamo un passo. Hanno paura di essere contaminati dal nostro sangue nero? È quella la paura che hanno i bianchi in Occidente? Dimmelo tu, che lì ci vivi. […]
“Ecco, io vorrei un mondo dove noi africani avessimo la possibilità di spostarci. C’è chi vuole studiare, vedere il mondo, cambiare vita”.
Lafanu Brown non è un personaggio realmente esistito, anche se la vividezza con cui l’autrice lo descrive la fa apparire estremamente reale, è invece liberamente ispirato, come spiega l’autrice nella postfazione, a due donne Sarah Parker Remond, ostetrica ed attivista per i diritti umani nata a Salem e morta a Roma nel 1894 e ad Edmonia Lewis scultrice statunitense venuta in Italia per diventare artista e curatrice d’arte.
La linea del colore di Igiaba Scego- Bompiani (2020) – pag. 367