Aprire gli occhi è imperativo

Ogni volta che si legge un libro, saggio o romanzo che sia, o ci si documenta con un po’ più di attenzione e meno superficialità, quello che salta immediatamente agli occhi è che la “questione palestinese” non è iniziata il 7 ottobre 2023.

E la tattica di isolare, rendere la vita impossibile, controllare in modo sistematico e oppressivo la popolazione palestinese, ha una storia lunga e dolorosa, iniziata nel 1948 e proseguita nel totale disinteresse del mondo per più di cinquantanni.

Il silenzio dell’Occidente su quello che è avvenuto in Palestina può forse essere compreso tenendo conto di due fattori: il senso di colpa e gli interessi economici. Senso di colpa per il genocidio perpetrato durante il regime nazista che ha visto rinchiudere nei ghetti, internare nei campi di concentramento, e sterminare nei forni crematori e nelle fosse comuni sei milioni di persone. E interessi economici che condizionano e lucrano ogni scelta. Tener conto di questi due elementi rende forse un pochino più comprensibile la situazione.

L’occidente si è cullato nell’illusorio mantra di due popoli, due stati, senza considerare le paure ataviche che il popolo eletto si portava dietro e la disparità economica e di influenza che c’era tra un popolo povero, praticamente disarmato e abbandonato a se stesso e uno ricco, armato fino ai denti e appoggiato dal mondo.

La situazione in Palestina è rimasta in stallo, per più di mezzo secolo. Uno stallo che ha significato per i palestinesi perdere un pezzetto alla volta terre, case, libertà. Ritrovarsi chiusi in una prigione a cielo aperto, perché Israele controlla lo spazio aereo, le telecomunicazioni, ed esercita un sistema di controllo costante nei confronti della popolazione palestinese.

Amnesty International ha più volte denunciato la situazione dei Territori palestinesi occupati, descrivendo dettagliatamente il sistema di violazione dei diritti umani qualificato dalla stessa organizzazione internazionale come apartheid, un crimine contro l’umanità così come definito dallo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e dalla Convenzione sull’apartheid. Nel rapporto si legge che “le massicce requisizioni di terre e proprietà, le uccisioni illegali, i trasferimenti forzati, le drastiche limitazioni al movimento e il diniego di nazionalità e cittadinanza ai danni dei palestinesi fanno parte di un sistema che, secondo il diritto internazionale, costituisce apartheid”.

E tutto questo ben prima del 7 ottobre 2023. Da quel momento l’escalation di violenza è aumentata in via esponenziale. E si è cominciato a parlare di guerra, un termine a mio parere improprio: la guerra è tra due stati, tra due eserciti, non tra uno stato militarmente avanzato che bombarda a non finire distruggendo tutto, affamando la popolazione, e una organizzazione terroristica che tutt’al più lancia quattro razzi: cioè due parti assolutamente incomparabili.

E dopo venti mesi quello a cui stiamo assistendo è né più né meno che un genocidio.

Ho quindi trovato estremamente interessante ed arricchente il saggio di Francesca Albanese “Quando il mondo dorme”.

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, riesce in modo chiaro ed equilibrato a inquadrare un argomento che data la complessità e la poliedricità dei temi rischia di sfuggire di mano.

Partendo dall’assunto che ogni società democratica debba accettare e stimolare il diritto di critica e di dissenso – che altro non è che un corollario della libertà di espressione – baluardo di ogni democrazia liberale, l’autrice sottolinea come la questione palestinese è una questione giuridica di illegalità protratta istituzionale e sistemica, a cui, nei paesi occidentali, si disconosce persino il diritto di esistere.

Al popolo palestinese, infatti, è stato negato, e ben prima del 7 ottobre 2023, il diritto all’autodeterminazione. Sono quasi sessant’anni che Israele occupa illegalmente i territori di Gaza e della Cisgiordania, attraverso un colonialismo di insediamento che ha portato avanti un’opera di distruzione totale, metodica e pianificata. Un’operazione sistematica che ha già in sé i germi del genocidio (secondo la Convenzione sulla Prevenzione e la Repressione del delitto di genocidio, quando viene concepita l’idea di distruggere un gruppo in quanto tale, quali ne siano i motivi, anche la legittima difesa, si è in aria di genocidio). Un genocidio che oggi, pur essendo sotto gli occhi tutti viene minimizzato, annacquato, trasfigurato come lotta al terrorismo, perché Israele continua ad essere rappresentato dai media e dai governi occidentali, complici quindi di quanto accade, come “ultima frontiera dell’occidente”, “unica democrazia del Medio Oriente”.

Ma quando vi sono in gioco vite umane, occorre essere imparziali, non si può continuare ad avere due pesi e due misure a seconda di chi sia la vittima e chi il carnefice, né piegare ai propri interessi il diritto internazionale e le definizioni delle Convenzioni, trascurando e dimenticando i diritti umani.

«Essere imparziali significa avere il coraggio di difendere ciò che è giusto, di dare voce a chi è stato messo sotto silenzio o viene semplicemente ignorato, e di lottare contro i soprusi che martoriano il nostro mondo».

Francesca Albanese, per illustrare meglio la complessità dei temi che affronta, sceglie di dedicare il libro a dieci persone che hanno cambiato il suo modo di vedere le cose, persone diverse per età, estrazione, cultura, lingua, religione, accomunate però, dalla costante necessità di non farsi sopraffare dall’odio o dalla cecità ma di vedere le cose per quello che sono.

Inizia con la storia della piccola Hind, 6 anni, uccisa con tutta la sua famiglia e diventata simbolo della violenza cieca ed indiscriminata dell’occupazione israeliana soprattutto nei confronti dei bambini, che nella vita hanno conosciuto solo la violenza e la brutalità. Crescere sotto occupazione significa crescere in una realtà fatta di checkpoint, torri di controllo, muri, guardie armate, perquisizioni, arresti arbitrari, in una costante violenza fisica e psicologica. Bambini traumatizzati e spesso vittime di malattie curabilissime che a causa della segregazione subìta diventano mortali.

E per certi versi la stessa sorte tocca ai bambini israeliani cresciuti in un clima costante di violenza ed odio.

«Alla fine anche loro sono vittime, perché – come sostiene la filologa israeliana Nurit Peled-Elhanan – venire educati fin da piccoli alla paura e al sospetto nei confronti dell’altro, alla normalizzazione della violenza, alla perpetuazione di una visione del mondo fondata sulla dominazione razziale e sulla sopraffazione, portata dall’ideologia dei loro leader politici e spesso dei loro stessi genitori, non è stata una scelta.»

Per proseguire attraverso le vicende di Abu Nassan, guida di Gerusalemme, che mette in guardia su come persino la narrazione archeologica sia stata trasformata in un riscrittura della storia; di George e del racconto di Gerusalemme la città santa, simbolo delle tre religioni monoteiste, a cui pare sia stato strappato qualcosa, divisa di un muro, dichiarato illegittima dalla Corte internazionale di Giustizia già nel 2004, che costringe a giri assurdi e a controlli umilianti per effettuare pochi metri.

Tramite gli incontri e le parole di Ingrid, olandese che vive da anni in Palestina, di Ghassan, medico naturalizzato britannico, di Eyal Weizman, architetto forense, di Malak Mattar, giovane artista palestinese il cui dipinto illustra la copertina del libro, l’autrice riesce ad illustrare tutta le sofferenza del popolo palestinese.

Assolutamente imperdibili sono i contributi di Alan Confino, storico, e di Gabor Matè, sopravvissuto alla Shoah medico e psicoterapeuta, entrambi ebrei sull’uso ideologico del termine antisemitismo. Termine di cui ultimamente si abusa con deliberata e scellerata facilità, assimilando la critica alla politica di Israele come stato, all’odio religioso contro gli ebrei come popolo e religione.

La relatrice speciale delle Nazioni Unite riesce a mantenere uno sguardo umano ed empatico anche nei confronti del popolo ebraico, di cui capisce la necessità di avere una terra da chiamare casa e di sentitisi protetti, così come il legame esistente, profondo e radicato, con Gerusalemme e la Palestina. Sottolinea, però, il trauma di disconnessione di cui soffrono gli ebrei, che ha cambiato la loro percezione del mondo, trasformandoli in vittime perenni e piegando qualsiasi principio alla loro narrazione.

Impossibile ricordare tutti i temi che Francesca Albanese tocca: dai sistemi di identificazione che suddividono la popolazione palestinese in quattro classi, all’abuso all’incarcerazione anche per reati minimi effettuati da minori (come il lancio di pietre contro i carri armati fatto dai bambini); dalle varie appropriazioni culturali (di cibo o archeologia), agli abusi che Israele commette come paese occupante, che secondo il diritto internazionale non può attaccare unilateralmente la popolazione che occupa militarmente. Ed impossibile dire quante riflessioni e approfondimenti mi ha permesso di fare: dal “racial bias”, all’arroganza occidentale, fino al ripasso, se ce ne fosse bisogno, dei mille genocidi, nascosti o dimenticati di cui è costellata l’intera storia dell’occidente e la supremazia dell’uomo bianco.

“Quando il mondo dorme” è un testo imprescindibile se si vuole guardare, senza preconcetti e senza storture, quanto sta accadendo a Gaza: un genocidio annunciato e silenziato. Una strage che si ha paura persino a definire e che per questo rende complice l’intero occidente, così fiero di scandire e dichiarare “mai più”, ma pronto a dare manforte, sostegno economico e giustificazione a quello che avviene quotidianamente e in diretta. Domani non si potrà dire “non sapevamo”.

Quando il mondo dorme di Francesca Albanese – Rizzoli (2025) pag. 284

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *