Pensavo, a torto, che la “questione palestinese” fosse nata con la fine della seconda guerra mondiale, quando dopo l’ignominia dei campi di sterminio e la consapevolezza di sei milioni di morti, i sensi di colpa dell’occidente avevano concesso ai sopravvissuti una terra. Un dono maledetto perché la famigerata Terra promessa della Bibbia e dell’Esodo di Mosè in realtà era una terra abitata da sempre da altre popolazioni. Un territorio in cui popolazioni diverse, di religioni diverse avevano sempre pacificamente convissuto.
In realtà la questione è più vecchia e la spiega in modo davvero magistrale Gilbert Sinoué che riesce a trasporre i fatti storici dentro la vita quotidiana, illustrando i passaggi di una politica senza scrupoli che ha portato all’odierno orrore.
Nel 1916, quando ancora la prima guerra mondiale infuriava, e l’alleanza dei turchi con i tedeschi destabilizzava il Medio Oriente, il tenente Lawrence, conosciuto successivamente come Lawrence d’Arabia, organizzò un contingente di combattenti volontari arabi, provenienti da varie tribù beduine, che dovevano appoggiare gli inglesi, creando un fronte di instabilità per l’Impero Ottomano. Lawrence fece promesse d’indipendenza, senza che però ci fossero dei veri e propri accordi o ratifiche di come avrebbero potuto essere suddivise le aree una volta caduto l’impero ottomano. Nel frattempo nelle stanze del potere, a Londra, i ministri degli Esteri britannico e francese firmarono un accordo che segnerà inesorabilmente le sorti del Medio Oriente. Il patto segreto, noto come “trattato Sykes-Picot”, con l’assenso della Russia zarista, decise le rispettive sfere d’influenza e di controllo. Le diplomazie europee, nel tentativo di colmare il vuoto di potere che la caduta dell’Impero Ottomano avrebbe creato, avevano, infatti, deciso di dividere in maniera distinta le zone ottomane, senza rendersi conto che in realtà quelle divisioni non erano così nette e soprattutto senza tenere in nessun conto il desiderio di indipendenza e autonomia delle popolazioni locali.
Alla caduta dell’Impero Ottomano, contraddistinto per quasi cinque secoli da una convivenza per lo più pacifica tra le varie religioni e tra le varie etnie si scatenarono dunque una serie di conseguenze i cui effetti continuano a riverberarsi fino ad oggi.
«Come diceva Sua Eccellenza, io conosco un po’ la regione. Questa spartizione, concepita nelle stanze del Foreign Office e del Quai d’Orsay, non tiene conto della realtà. Ci sono forti probabilità che questo trattato, firmato a spese degli arabi e che li priva di ogni loro diritto, generi con il tempo una terribile frustrazione. E nulla è peggio della frustrazione. Molti uomini sono morti, molti uomini hanno versato il loro sangue in virtù delle promesse che erano state fatte. Non lo dimenticheranno, anche se sono beduini.»
S’interruppe un istante.
«Stiamo costruendo in quella parte del mondo una polveriera, peggio ancora una serie di bombe a scoppio ritardato, come se nella storia non ce ne fossero state già abbastanza.»
Mai parole furono più profetiche…
Tutto ciò a cui ancora oggi stiamo assistendo, l’instabilità della regione, le continue insurrezioni popolari, la nascita del terrorismo islamico, trova la sua radice in questa visione miope e senza scrupoli, in cui l’interesse economico e politico a mantenere il controllo della regione per poter gestire traffici commerciali e influenze politiche non tenne in nessun conto l’aspirazione alla democrazia e alla libertà, nonché alla auto determinazione dei popoli.
Il racconto delle conseguenze che ebbe questa divisione nel definire la storia mediorientale e la vita delle persone è il filo conduttore del romanzo. L’autore egiziano utilizza, infatti, le storie dei suoi protagonisti per raccontare le vicende storiche della regione. Intrecciando la storia del palestinese Murad Shahid, e della sua famiglia di produttori di agrumi, che abbandona per andare a studiare all’Università del Cairo, dove incontra i Lufti famiglia egiziana di produttori di cotone. Allo stesso modo si intrecciano le storie di due altre famiglie quella palestinese dei Tarbush e quella ebrea dei Marcus – Bronstein entrambe residenti a Gerusalemme. L’ultima famiglia, quella degli El-Safi, si trova invece a Baghdad e vive in prima persona le transizioni politiche di quello che diventerà poi l’Iraq. Sinoué affronta la storia del Medio Oriente dal 1916 al 1956 attraverso gli occhi di queste cinque famiglie alle prese con i cambiamenti politici e geopolitici della regione, mettendo l’accento sulle tradizioni millenarie, ma anche sulla modernità di popoli culturalmente aperti, capaci di convivere in sintonia e amicizia con arabi di diverse origini e con gli ebrei.
Tra queste pagine scorrono la nascita del movimento sionista appoggiato dalla dichiarazione del 1917 dell’allora ministro degli esteri inglese Balfour, che guardava con favore “l’insediamento in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”
«Per gli inglesi e per l’Occidente in generale noi non esistiamo. Loro immaginano che la Palestina sia una distesa desertica, priva di ogni segno di civiltà. Hanno rimosso il fatto che i nostri antenati, i cananei, vivevano qui più di quattromila anni fa, e ritengono che le settecentocinquantamila persone che abitano le nostre città, i nostri villaggi, siano dei fantasmi, le nostre scuole, le nostre chiese, le nostre moschee le nostre biblioteche, i nostri campi, i nostri filatoi, le nostre coltivazioni….» Spazzò l’aria con la mano. «Solo fumo!»
Ma anche quella del movimento dei Fratelli Musulmani in Egitto nel 1928, che abbandonando l’atteggiamento fino ad allora aperto e tollerante, contrastava l’influenza laica e si rifaceva ad un Islam fondamentalista duro e puro.
Ricorda le difficoltà di integrare popoli e religioni diverse, evidenziando come solo la conoscenza approfondita della realtà e della storia può evitare una cecità dalle conseguenze terribili.
«Non devo certo ricordarvi che l’Irak è un mosaico, sir Percy. Intanto avete a che fare con varie razze: arabi, curdi, turcomanni, turchi e anche persiani. Poi ci sono le sette: sunniti, sciiti, cristiani, nestoriani, e giudei. I sunniti nutrono un odio feroce nei confronti degli sciiti; i curdi verso tutti e due; i turcomanni si sbarazzerebbero volentieri dei curdi. I cristiani e i giudei sono appena tollerati, e si tollerano reciprocante. Agitate il tutto e ottenete una nazione. Voi inglesi chiamate questo miscuglio, se non sbaglio, un melting-pot, un crogiolo. Arrivare in Irak senza conoscere i contorcimenti del suo passato e del suo presente è come spingere un cieco in un labirinto infestato dagli scorpioni: alla fine ne uscirà, ma con i piedi in avanti.»
La terra dei Gelsomini è il primo tomo della trilogia Insh’allah e tramite un approccio letterario e romanzato capace di rappresentare la complessità di una regione travagliata permette di regalarci una prospettiva unica.
Devo dire che ho decisamente apprezzato più la parte storica che non quella romanzata. Forse è talmente appassionate anche se urticante scoprire tutte le storture su cui si costruisce la storia… da rendere quasi banale l’invenzione rispetto alla realtà.
La terra dei gelsomini di Gilbert Sinouè – Beat Bestseller (2022) – traduzione di Giuliano Corà – pag. 446