Credo non ci sia nulla di più difficile complesso, ostico come il rapporto madre figlia. Per quanto si possa amare la propria madre, questa rapporto si mostra, come diceva l’altra sera una persona con cui stavo parlando come un cactus, nel senso che è, quasi sempre, un rapporto ricoperto di spine.
Proprio a questo complessa, sfaccettata, totalizzante relazione è dedicato il libro Fino alla fine di Helga Flatland.
Attraverso una narrazione alternata che permette di capire entrambi i punti di vista l’autrice norvegese cerca di entrare in questo rapporto ancestrale, profondo, fatto di amore e rivalità, confronto e ribellione.
Le due donne madre e figlia sono Anne, una professoressa di settantanni a cui viene diagnosticato un tumore e Sigrid medico quarantenne con due figli e un compagno. Nel passato di entrambe la figura di Gustav, marito di Anne e padre di Sigrid che a causa di una serie di ictus è diventato una sorta di vegetale, e Magnus, il fratello di Sigrid, ha sempre cercato di mediare tra le due donne, ma con scarso successo.
Da subito si intuisce una difficoltà di relazione tra le due donne, è soprattutto Sigrid ad accusare la madre di freddezza nei suoi confronti e la malattia della donna viene vista come l’ultima possibilità di ricomporre il conflitto. Nonostante non sia più una bambina Sigrid vuole disperatamente che sua madre le chieda scusa. E’ ancora in attesa di una sorta di risarcimento o per lo meno di un segno che indichi che la mamma le vuole bene e la considera importante. Ha sempre sentito la madre distante, indifferente a lei e ai suoi bisogni e sono propri questi che emergono dai suoi ricordi: il non averle fatto indossare gli stivali e la mantella quando pioveva o non averle preparato la colazione la mattina prima di andare a scuola.
Probabilmente quello che la figlia non è mai riuscita a comprendere è che la madre ha dovuto gestire il padre, è stata la malattia di quest’ultimo a far collassare gli equilibri familiari. L’accudire costantemente un uomo che a poco a poco, nonostante la giovane età non è stato più in grado di essere autosufficiente, unita alla necessità di occuparsi comunque di una fattoria, di due figli, di un lavoro, ha ristretto la possibilità di occuparsi in maniera assidua delle esigenze e dei bisogni, soprattutto affettivi, della figlia, che ha vissuto però tutto questo come una mancanza nei suoi confronti.
L’ho intenzionalmente tenuta all’oscuro della mia infanzia, del lento crollo di mia madre in seguito alla malattia di mio padre, del fatto che non si occupasse d’altro che di lui, che io e Magnus siamo rimasti pressoché abbandonati a noi stessi fin da quando io avevo otto anni e che la nonna ha cominciato a fare la nonna – e, sperimentalmente, anche la mamma – solo dopo aver piazzato mio padre in istituto.
E probabilmente a questa “mancanza” Sigrid attribuisce la colpa per le scelte fatte, l’amore folle per Jens, dipendente dai farmaci, che è sparito dopo averla messa incinta e la relazione con Aslak, il vicino di casa che si è preso cura di lei e della bambina con cui ha avuto un secondo figlio Viljar.
Nonostante l’amore di Aslak per lei e per Mia, che considera una figlia, il ritorno di Jens ha fatto tornare a galla il caos dei suoi sentimenti, un mix di rimpianto, di voglia di rivalsa, di gelosia per il rapporto che il padre sta creando con la figlia, e di passione mai sopita verso il suo primo amore.
Sigrid è arrabbiata con la vita, il suo equilibrio è solo di facciata, dentro di lei ribollono emozioni fortissime che sono ulteriormente accelerate dalla notizia della malattia della madre dal suo atteggiamento “medico”. E’ preoccupata dalle analisi, dagli esami, dalle terapie, senza troppa considerazione per i desideri della madre,che non ammette intrusioni dei figli nelle sue scelte e nelle sue decisioni.
Sono stata io a voler andare via, sono stata io a voler venire qui, sono stata io a volere questa vita.
Anne appare come una donna decisa, padrona della sua vita, seppur condizionata e limitata dalla malattia del marito, che le ha impedito tante cose, che l’ha lasciata “vedova” ma con il peso, la preoccupazione, la presenza di un invalido. Una donna travolta da una tragedia, desiderosa di riavere indietro l’uomo della sua vita, che è riuscita ad andare avanti seppur con fatica. Il suo approccio alla malattia, al dolore, alle terapie è molto pragmatico. Non vuole essere definita dal cancro che le cresce dentro, vuole poter fare le cose in autonomia come ha sempre fatto, anche se questo può voler dire trascorrere delle giornate seduta in un bistrot a Parigi senza le forze per poter fare altro.
Non c’è solitudine in una casa dove c’è sempre gente; non c’è un solo posto dove starsene in santa pace. Mi torna in mente il periodo immediatamente successivo al secondo ictus di Gustav, quando entrambe le mie sorelle sono accorse a darmi una mano, e intanto Magnus e Sigrid erano dappertutto, occupavano tantissimo posto nonostante fossero piccoli; in qualunque stanza io cercassi di rifugiarmi per pensare, per schiarirmi le idee, per urlare, loro erano lì.
Helga Flatland, tramite un racconto a due voci, ci porta nella relazione conflittuale tra una madre e una figlia, che nonostante l’affetto non si comprendono. Anne non capisce le accuse di Sigrid, non riesce a vedere in quale modo sia stata un madre assente o trascurante, per lei l’accudimento verso il marito è più che una giustificazione per le eventuali carenze nei confronti della figlia. La figlia è rimasta fondamentalmente bambina ancora in attesa di essere vista dalla madre. Di essere abbracciata e compresa, pare essersi costruita una sorta di corazza che l’ha portata anche a fare scelte che non la soddisfano. Su entrambe pesa la diagnosi della malattia che lascia poco tempo per aggiustare o ricucire il rapporto.
Un romanzo coinvolgente e commovente su uno dei rapporti più indagati e allo stesso più misteriosi di ogni esistenza.
Fino alla fine di Helga Flatland [Et liv forbi 2023] Fazi Editori (2023) pag. 284