Una decina di anni fa mi imbattei nel romanzo di una giovane autrice Alice Basso e ne rimasi folgorata: una protagonista Vani Sarca – misantropa sociopatica, come si definisce lei stessa, ghostwriter di professione, tanto eccezionale da entrare nella testa altrui e scrivere con la stessa impronta dell’autore -, intorno l’affresco della realtà del mondo editoriale, con l’arroganza di certi super professionisti che diventano divulgatori delle loro conoscenze tecniche e la pochezza di scrittori di fama; valore aggiunto le indagini poliziesche che davano un tocco di suspense ad una storia già di per sé fresca ed originale. Bravissima Alice a scrivere una storia ironica, ricca di aneddoti sull’editoria, e soprattutto di riferimenti e omaggi alla letteratura. Una serie conclusasi dopo cinque libri e una sorta di normalizzazione del personaggio che trova un suo posto nel mondo e una sua tribù con cui sentirsi a casa.

Ho fatto questa premessa per dire che quando ho letto il primo romanzo della nuova serie scritto dall’autrice, milanese di nascita ma torinese di adozione, ho avuto un attimo di sbandamento. Perché la nuova protagonista Anita Bo non poteva essere più diversa dalla precedente. Una ragazza molto bella e consapevole di esserlo, tanto da sfruttare a suo vantaggio l’impatto che ha sugli uomini, piuttosto frivola, interessata ai vestiti, al trucco, e poco portata per lo studio. Una giovane donna che inizia a lavorare per provare il brivido dell’autonomia e dell’indipendenza prima di sposarsi e donare alla patria i sei figli che il fidanzato sogna.

E diversissima l’ambientazione, siamo a Torino del 1935, periodo in cui Mussolini (o meglio Cerutti, come lo chiamano i torinesi) è al potere da una decina d’anni e ha portato, oltre alle purghe, riforme e pulizia, per cui gran parte degli italiani apprezza la società ordinata ed organizzata che ha creato. Certo il clima di sospetto, la reticenza a confidare anche alla famiglia le proprie idee, la violenza insita in tante manifestazioni pubbliche fanno paura, e il dissenso anche se sotterraneo c’è e il migliore dei posti possibili si allontana sempre di più.

Anita Bo si ritrova così a fare la dattilografa, uno di pochi lavori concessi all’epoca alle donne, alle Edizioni Monné, dove è pubblicata Saturnalia, rivista di racconti polizieschi americani che, con l’avvallo della censura, l’editore traduce e porta in Italia, grazie anche una storia originale di stampo fascista, “Le indagini del commissario Bonomo”. E qui conosce il suo capo, il traduttore e scrittore Sebastiano Satta Ascona, affascinante ma rigido, che pare condividere le idee imperanti e voler dare il suo contributo al regime.

Accanto a loro: Clara, la migliore amica di Anita, conosciuta sui banchi di scuola, che pare per certi versi ai suoi antipodi, studiosa, tranquilla e riflessiva, il giusto bilanciamento al carattere della protagonista; Candida, la professoressa di entrambe e mentore delle giovani alunne, a cui instilla a poco a poco, il seme del dubbio e fa leggere i libri messi all’indice dal regime; Mariele la madre di Anita, imperiosa ed imperativa, ogni suo discorso è un diktat; e poi Julian l’amico di Sebastiano giornalista americano, e tanti altri che acquisteranno spessore a poco a poco e che saranno determinanti nel corso dei libri successivi.

Per Anita da battere a macchina le avventure e le indagini dei detective di carta a diventare lei stessa investigatrice con il suo capo il passo è breve. E scrivendo e leggendo inizia a ragionare con la testa, a vedere le storture del regime, le ipocrisie, le violenze, e desiderare di dare un contributo seppur piccolo a quella “resistenza” che seppur minima esiste.

Già, un libro.

Che ironia, il regalo che può essere una manciata di parole.

Anita sospira, forte, e chi se ne frega se i due spilungoni che stanno passando la guardano. Se sapessero a cosa sta pensando adesso. Non se lo immaginerebbero mai. Alle parole di un libro – anzi, più d’uno. Parole di una poesia su un lupo che bisogna strapparsi di dosso, parole di un romanzo giallo scritto da due autori che insieme fanno un personaggio, parole di tanti racconti polizieschi di cui uno sul Ku Klu Quello là – su quel circolo di gente che fa guerra ai neri. Parole che non hanno paura, che alzano il tappeto e mostrano lo sporco che c’è sotto, il crimine e la necessità e l’ingiustizia e a volte la disperazione. E che dicono male della guerra e bene dell’amore e ispirano pietà verso i deboli e coraggio contro i potenti e così via, Parole che planano in cima ad altre parole e si mescolano e ti fanno venire voglia di scriverne altre tu. Parole incendiarie da maneggiare con cura.

Possibile che delle banalissime parole, scelte in un certo nodo, messe in un certo ordine, siano capaci di cambiarti la vita?

I cinque romanzi si concentrano su alcuni dei capisaldi dell’epoca: dall’impossibilità di dissentire e far sentire la propria voce nel primo; a ciò che nasconde la ONMI, l’Opera Nazionale della Maternità e Infanzia fondata dal fascismo allo scopo di tutelare le madri e i bambini in difficoltà nel secondo; da ciò che cela la magia del mondo del cinema, che richiama il momento in cui Torino era la capitale della settima arte e i divi erano spesso prigionieri dei personaggi stereotipati che interpretavano, impossibilitati ad essere diversi da come apparivano anche nella vita privata, nel terzo; ai circoli segreti di chi fa resistenza semplicemente continuano ad ascoltare musica proibita, a leggere ciò che è messo all’indice, a dipingere ciò che non è bene nel quarto; fino all’ultimo dove viene tratteggiato come funzionava e si insinuava la polizia politica, l’OVRA, vigilando e reprimendo chiunque potesse essere anche lontanamente avvicinato ad organizzazioni sovversive, che tramassero contro lo Stato.

In tutti e cinque vi è la vivace ricostruzione dell’epoca, l’analisi del ruolo della donna, le tante assurdità del regime: l’Italia degli anni trenta in cui Mussolini era ancora, per i più, il padre della patria, colui che avrebbe risollevato il paese e l’avrebbe accompagnato a sedere accanto alle potenze europee, ma in cui gli abusi delle camice nere, la censura, la violenza era già nell’aria. Un momento in cui era assolutamente impensabile parlare di delitti, perché nello stato pulito e perfetto creato da Mussolini non dovevano esistere, e per pubblicare opere straniere, oltretutto gialle, si doveva bypassare la censura.

Non tutti i romanzi mi hanno convinto allo stesso modo, soprattutto il terzo mi ha dato l’impressione che sia stata sprecata un’ottima occasione, ma la protagonista libro dopo libro ha acquistato spessore, la sua intelligenza ed il suo intuito si sono acuite, da sventata e a tratti superficiale, a donna consapevole che fa scelte controcorrente per portare avanti i suoi ideali.

E alla fine devo dire che per Anita Bo è successo l’esatto contrario di quanto accaduto con Vani Sarca: con Vani era stato innamoramento al primo libro che era un po’ diminuito andando avanti, qui non è scoccata subito la scintilla, c’è voluto più tempo per apprezzare protagonista e storie, ma alla fine ho letto l’ultima riga con una certa commozione e l’idea che le imprese di Anita Bo mi sarebbero mancate parecchio.

La scrittura di Alice Basso è brillante, ironica, ricca di digressioni, piena di informazioni interessanti e, sinceramente, dopo averla incontrata di persona più volte, devo dire che lei scrive come parla: una macchinetta, impossibile non pendere dalle sue labbra quando attacca a raccontare qualche aneddoto legato al suo lavoro o alle ricerche che l’hanno occupata per definire l’epoca storica in cui collocare la sua nuova serie. E tutto questo entusiasmo, questa energia scorre anche nelle pagine dei suoi libri.

Il morso della vipera (2020)

Il grido della rosa (2021)

Una stella senza luce (2022)

Le aquile della notte (2023)

Una festa in nero (2024)

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