Quando qualcuno mi domanda perché leggo così tanto, varie sono le risposte che do: perché mi piace, perché leggere, come viaggiare, è l’evasione perfetta, perché sono curiosa e adoro assaporare culture, epoche, storie diverse, ma in realtà c’è un’altra risposta forse la più vera, io nei libri trovo sempre pezzi di me.
Ed è incredibile come i libri arrivino sempre al momento giusto, a darmi risposte a domande che a volte non so neanche mi stessi ponendo, a farmi ragionare su qualcosa che stava annidato e acquattato in un angolo remoto della mente ed io neanche lo sapevo.
E’ successo anche stavolta con l’intenso libro autobiografico di Erica Mou Una cosa per la quale mi odierai. Il racconto di nove mesi intensi e dolorosi: dall’annuncio della malattia della madre alla sua morte. Un percorso fatto di negazione, di rabbia, di disperazione. Nove mesi in cui la vita comunque va avanti con la speranza che la diagnosi sia sbagliata, che le cure siano risolutive, che il tempo a disposizione sia di più. La cantautrice pugliese scrive queste pagine dopo dieci anni e alterna momenti del presente a ricordi del passato, inserendo pezzi del diario della madre, Lucia, che ha avuto la forza di leggere solo anni dopo.
Un diario che rivela tutta la paura e la fragilità di Lucia di fronte allo tsunami che l’ha travolta, l’ansia per il responso delle analisi, il volto del fratello medico o del chirurgo che valgono più di mille parole, la stanchezza e la voglia di non lasciarsi andare nonostante tutto, lo sgomento di un corpo che non la sostiene più, la preoccupazione per i figli a cui vuole essere lei a dare l’annuncio, i messaggi dei colleghi che la inondano d’affetto.
Una cosa per la quale mi odierai è un percorso a due voci: l’accettazione dell’ineluttabile per una figlia e una madre, due donne legate dal legame forse più forte che si possa immaginare, legate ancor più da una doppia gestazione: nove mesi per nascere e nove mesi per morire.
Erica Mou riesce a farci percepire tutto lo smarrimento, la stanchezza, il sentirsi un’anima di cartone, perché la propria essenza sta decisamente da un’altra parte, il senso di scissione, unita alla necessità di portare avanti i propri progetti, di vivere nonostante tutto di una figlia che assiste impotente alla malattia della madre.
[…] io sono stanchissima di una stanchezza che non è mentale e neanche fisica, è un travaso.
Ma anche a far percepire il dolore di Lucia, una donna con la mia stessa età, piena di progetti e di idee, che si trova all’improvviso catapultata in un mondo fatto di diagnosi, di esami, di tac, di visite, di responsi, di addii. E prova sgomento, rabbia, solitudine e confida questi stati d’animo in un diario, lo specchio della sua anima.
Ero una donna in forma.
Fisicamente.
Intellettivamente.
Psicologicamente.
Un rapporto coniugale, finalmente, del tutto recuperato.
Due figli splendidi.
HO PERSO TUTTO.
Una cosa per la quale mi odierai è costruito tra flashback, brani di diario, momenti del presente, tra cui i dialoghi con il piccolino che le cresce nella pancia della scrittrice e che lei chiama amorevolmente Embry, per spiegargli il vuoto che la morte della madre le ha lasciato dentro, le tante prime volte vissute senza la presenza rassicurante di lei. Il tutto raccontato senza pietismo, ma con la forza dell’amore e dell’affetto in cui lacrime e risate si mischiano insieme.
Se ti fermi a pensare a ciò che c’era prima, piangi. Se ti fermi a pensare a ciò che c’è intorno, all’universo, alle proporzioni di un ago di pino rispetto a una galassia, al rapporto tra il tempo della tua esistenza e quello di una stella, impazzisci. Se pensi che nella mia pancia c’è una persona futura che da questo mese ha imparato a succhiarsi il pollice e a grattarsi la fronte, ridi.
E tutte e tre le cose sono ovvie e sono assurde, sono le cose più fondanti a essere le più assurde, le più magiche. L’acqua, per esempio.
Guardare la foto in bianco e nero di una piccola vita, che due settimane fa era piccolissima, che quattro mesi fa non esisteva, che ora incrocia le gambe e nuota è come guardare le stelle in una notte d’estate in montagna, è sentirsi di non sapere niente e on poter far altro che contemplare il precipizio nel quale finisce il sentiero. Minuscola o infinita che sia, la vita tutta è un baratro che si affaccia su un pieno.
E mentre leggevo io sentivo tutto il dolore per la morte di mia madre, un dolore che oggi dopo un anno è più forte di prima, riemerge a tratti, a momenti, quando vorrei raccontarle qualcosa, quando ricordo una sua frase, una sua espressione, quando provo a cucinare qualcosa come faceva lei… Un distacco che è enorme qualsiasi età si abbia.
Una cosa per la quale mi odierai di Erica Mou – Fandango Libri (2024) – pag. 194