Ho sempre avuto un grande interesse per i libri che parlano di maternità, anche perché se nella retorica corrente la maternità è sempre l’esperienza fondante, meravigliosa ed imprescindibile per ogni donna, nella realtà le cose solo un po’ diverse. Il corpo che cambia, il sonno, che almeno nella mia personale esperienza, ha accompagnato entrambe le gravidanze, la stanchezza, e poi dopo la nascita il trovarsi con un esserino urlante e indifeso tra le braccia e la paura di non essere all’altezza, di non essere in grado di rispondere alle esigenze pressanti di quella creatura che dipende totalmente da noi, sono esperienze sconquassanti e su cui difficilmente ci si confronta. Ammettere che a volte diventare madri non è il paradiso in terra, che i punti alla vagina tirano, che il seno raddoppiato di volume fa male, che non dormire la notte ci disintegra, che ci pare di non far più parte del complesso civile, che avremmo voglia di una doccia, di un tè, di una notte di sonno, di un momento di assoluta e totale solitudine, o solo di parlare di qualcosa di diverso dalla poppata, la cacca, il peso, il sonno del nostro bebè. Perché soprattutto nei primi mesi il mondo va avanti mentre noi siamo ferme in una stanza con, tra le braccia, la cosa più bella e più terribile del mondo. Il nostro piccolo tiranno che ha cambiato e cambierà da quel momento in poi, per sempre, la nostra vita.
Questo mix di emozioni sono raccontate perfettamente nel romanzo La nursery di Szilvia Molnar. La protagonista, interprete, orfana di madre, alternando episodi della sua vita precedente – la particolarità del suo lavoro (l’interpretare, adattare, a volte addirittura rendere migliore il testo di partenza), l’inizio della gravidanza e il suo procedere fino al parto – si concentra sullo sconcerto e l’impotenza che sente da quando è tornata dall’ospedale con la figlia. Una sequela di momenti sempre uguali, poppate, cambi, sonnellini, che si ripetono costantemente in un totale scollamento dalla realtà, che la porta ad isolarsi ancora di più, a non voler vedere nessuno, a trovare irritante anche la presenza del compagno. Unico momento di tregua gli incontri con il vicino di casa, vedovo da poco, che combatte la depressione per il lutto e l’assenza della moglie amatissima. E’ solo con lui che riesce a dare corpo alle sue emozioni, ad esternare che non si sente pronta, che c’è un prima in cui la sua vita, per quanto routinaria e ripetitiva aveva un senso, e un oggi, a cui non riesce ad adattarsi.
So solo che la pace di prima non mi faceva male. Era un vita piena di quiete, di controllo sulle cose, di indipendenza, di sjalvstandighet: l’io capace di stare in piedi da solo.
Probabilmente sta vivendo una sindrome chiamata “maternity blues” – da non confondersi con la più grave depressione post partum – una condizione transitoria e reversibile cui la donna va incontro nella settimana successiva al parto in circa il 70/80% dei casi, determinata principalmente dai cambiamenti ormonali tipici del momento contingente. Un malessere caratterizzato da ansia, confusione, stanchezza, instabilità dell’umore, ipersensibilità che può essere alleviato facendo sentire la neo mamma compresa e soprattutto sollevandola da tutte quelle incombenze quotidiane che in quella fase delicata la schiacciano e soverchiano. Perché la maternità tanto celebrata e le mamme definite così importanti ed essenziali nella società, in realtà sono lasciate sole. Sole a combattere la fatica, l’inadeguatezza, il cambiamento enorme che ha subito la loro vita. Se si riflette fino a non molto tempo fa il momento della nascita era un rito collettivo che coinvolgeva tutta la comunità femminile: mamma, nonna, zie, cugine erano intorno alla puerpera per aiutarla materialmente, ma anche per sostenerla psicologicamente, per fornire consigli, suggerimenti, esperienze di vita. L’autrice non per niente, secondo me, rimarca fin da subito che la protagonista è orfana di madre. Le manca quella sorta di passaggio del testimone che avviene in linea femminile, che permette un’accoglienza totale e un sostegno affettuoso alla neo mamma e alla neonata.
Szilvia Molnar, con una scrittura scarna racconta la prima settimana del rapporto madre figlia, una figlia che, oltretutto, per la madre è senza nome, la chiama Bottone, che appare subito estremamente evocativo. Una narrazione che si concentra in un tempo minimo, infinitesimale, una sola settimana, ma che per chi legge appare invece dilatato, come fossero passati mesi da quando la donna è tornata dall’ospedale con la neonata. E rende perfettamente i mille sentimenti ed emozioni, le paure, le ansie, le difficoltà, di chi è diventata mamma da poco e ancora non ha fatto i conti con gli infiniti cambiamenti che la sconquasseranno.
Una lettura necessaria che ogni donna dovrebbe affrontare prima di decidere di avere un figlio, per essere pienamente consapevole di quello che l’aspetta, senza edulcorazioni o fantasie.
- La nursery di Szilvia Molnar [The Nursery 2018] Guanda (2023) – traduzione di Francesca Pellas – pag. 219